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Perché è saggio accantonare il decreto sulle banche popolari

Il decreto sulle banche popolari, che prevede la trasformazione delle banche popolari, con un patrimonio superiore agli 8 miliardi, in società per azioni, inciderà sul modello di business degli istituti di credito interessati, che ridurranno la loro capacità di finanziamento di famiglie e piccole imprese.

Giovanni Ferri
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Prima di giudicare il decreto sulle banche popolari è utile che spieghi perché iniziai a occuparmi di banche cooperative oltre venti anni fa e perché ho continuato a farlo.

All’inizio degli anni ’90, allora economista della Banca d’Italia, percepivo una scarsa comprensione della componente bancaria dello sviluppo decentrato che il nostro paese aveva vissuto, a partire almeno dagli anni ’70. In effetti, molti contributi accademici successivi (cito solo Pietro Alessandrini e il suo pionieristico gruppo di ricerca) hanno riscontrato evidenze piuttosto nette che allo sviluppo dei sistemi di piccole imprese hanno dato un sostegno importante le banche del territorio. Ma chi erano quelle banche del territorio? Erano soprattutto le banche cooperative, talvolta accompagnate dalle casse di risparmio. Non che le banche più grandi – poi tutte trasformate in SpA – non fossero servite a quello sviluppo economico. Basti pensare al ruolo della Comit e di Mediobanca a sostegno della maturazione finanziaria e dell’internazionalizzazione di molte imprese che avevano trovato la via della crescita. Però, erano soprattutto le banche cooperative a identificarsi con quello sviluppo dal basso, dei distretti e dei sistemi locali.

Sfuggiva allora alla letteratura economica una chiara identificazione dei motivi per cui la banca cooperativa differisce dalla banca SpA in termini di obiettivi, incentivi, governance, modello di business e, di conseguenza, vocazione a sostenere le famiglie e le piccole imprese. Eppure la riflessione economica si stava muovendo in senso utile a tale comprensione sin dai primi anni ‘80. Grazie a Stiglitz e altri, si affermava la concezione dei rapporti banca-debitore come strutturalmente caratterizzati da asimmetria informativa, che determina fallimenti di mercato ed equilibri in cui la banca raziona il credito. Grazie a Diamond e altri, la banca diveniva lo strumento per superare tale asimmetria informativa mediante l’acquisizione e l’uso di informazioni – spesso private e soft, cioè non pienamente codificabili e trasferibili – sui debitori. Infine, Bernanke e la Scuola del Credit channel fornivano argomenti forti sull’imperfetta sostituibilità tra finanziamenti di mercato e credito bancario, per cui disfunzionalità del settore bancario potevano esacerbare una restrizione monetaria o shock finanziari negativi, con rilevanti e persistenti impatti macroeconomici negativi.

C’entrano qualcosa questi sviluppi del pensiero economico con la differenza tra banca cooperativa e banca SpA? Allora percepivo di sì e buona parte dei lavori successivi lo ha confermato. In particolare se, seguendo Diamond, vogliamo una banca che razioni meno possibile il credito ai debitori che soffrono di più quei problemi di asimmetria informativa (proprio le piccole imprese), serve soprattutto una banca che operi con un modello di relationship banking. Cioè, una banca che investa in relazioni forti e di lungo periodo con i debitori. Infatti, è solo grazie a quelle relazioni che si possono raccogliere le informazioni soft indispensabili a evitare il razionamento. Ebbene, la banca cooperativa è tipicamente assai più orientata al relationship banking di quanto lo sia la SpA..

Perché? Per tre motivi. Primo pilastro, mentre la banca SpA ha l’unico obiettivo di massimizzare il profitto, la banca cooperativa ha in tutto o in parte finalità mutualistica e opera per una pluralità di stakeholders anziché per il solo gruppo degli shareholders. Secondo, con una banca cooperativa i clienti possono avere incentivi diversi che con una SpA. Infatti, nella banca cooperativa spesso i clienti sono anche soci e, quindi, figurando sia come depositanti che come azionisti possono avere incentivi al peer monitoring – il controllo tra pari che è alla radice del successo della Grameen Bank di Yunus – cioè a fornire alla banca informazioni che consentano di evitare di dare il credito a soggetti inaffidabili. Terzo pilastro, è diversa la governance. Nella banca SpA gli azionisti pesano in base al numero di azioni possedute. Al contrario, nella banca cooperativa ciascun azionista ha un voto a prescindere dal numero di azioni possedute (voto capitario). Quest’ultima modalità di governance accresce la accountability democratica della banca e si sposa con la mission della banca cooperativa verso la più ampia platea di stakeholders. Insomma, diversità di mission, diversità di incentivi e una maggiore rappresentanza democratica favorita dalla regola del voto capitario spingono tutte assieme la banca cooperativa all’adozione del modello di relationship banking.

A mio avviso, servono eccome pure le banche transazionali, che si specializzano nei debitori con minore asimmetria informativa e forniscono servizi cruciali per il raccordo con i mercati finanziari e per molte altre esigenze. Ma, al loro fianco, servono anche le banche relazionali – specie quelle cooperative – che si specializzano nel servire famiglie e piccole imprese. Il giusto equilibrio tra le due forme lo deve stabilire la clientela. Le autorità regolamentari e il governo dovrebbero garantire la neutralità senza intervenire ad alterare le forze in gioco. E, del resto, vari studi mostrano come i sistemi bancari nazionali che hanno saggiamente tutelato la biodiversità tra le varie forme societarie delle banche sono stati meno esposti alla crisi finanziaria globale.

Dal ragionamento precedente discende che la trasformazione di una banca cooperativa in SpA rimuove immediatamente il terzo pilastro e mina gradualmente gli altri due pilastri. Perciò, con l’andare del tempo, la banca cooperativa si sposterà dal costoso modello di business del relationship banking al più economico modello del transactional banking, cioè un modo di fare banca basato più sui contratti espliciti che sulle relazioni personali (che recano con sé contratti impliciti) e che porta la banca a fare più finanza e meno credito.

Quali saranno dunque le conseguenze per l’economia italiana se sciaguratamente, a mio sincero avviso, passerà il decreto sulle banche popolari? Le dieci principali banche popolari cambieranno modello di business e ridurranno la loro capacità di finanziamento di famiglie e piccole imprese. La sciagura sarà perciò grande quando le piccole imprese avranno recuperato gli animal spirits per far ripartire il ciclo di investimenti perché sarà per esse più difficile trovare credito. Ne deriverà un contributo a rendere permanente quell’impoverimento che l’Italia ha subito dal 2008 in poi.

La conseguenza che traggo dal mio ragionamento è che sarebbe saggio accantonare questo decreto, pensato frettolosamente e probabilmente senza aver presenti i presumibili effetti negativi. In un Paese statico come il nostro è legittimo pensare che la rottamazione possa aiutare a recuperare il dinamismo perduto. Però bisogna fare attenzione a non rottamare anche quello che serve.

Una postilla e una promessa.

Postilla: chi parteggia per questa pseudo-riforma delle banche popolari potrebbe obiettare che le dieci grandi popolari non sono più cooperative. Questo ragionamento non funziona. Primo perché si inverte l’onere della prova, come in tutti i processi truccati. Non dovrebbero essere le grandi popolari a dimostrare che sono diverse dalle banche SpA.. Invece, dovrebbero essere i proponenti della riforma a dimostrare in maniera inequivocabile che le grandi popolari sono come le SpA. Avendo studiato questo campo per molti anni dubito che riuscirebbero a dimostrare che il modello di business delle grandi popolari sia del tutto allineato a quello delle banche SpA. Secondo, il ragionamento è viziato perché non si dà loro un’altra via d’uscita. In altri termini, se fosse vero che le grandi popolari non sono più banche cooperative allora si dovrebbe dare loro l’opzione di tornare a esserlo anziché forzarle a divenire SpA. Anche perché magari potrebbero essere state spinte a una trasformazione ante litteram da forze esterne e non consapevolmente. Da ultimo, se non si dà questa possibilità vuol dire che non si riconosce il valore della banca cooperativa. È per questo che, con Leonardo Becchetti, abbiamo stilato un appello sottoscritto da 160 economisti (http://www.avvenire.it/Economia/Pagine/appello-in-difesa-banche-popolari.aspx).

Promessa: il ragionamento che precede riguarda solo l’analisi economica. E anche su questa ci sarebbe molto altro da dire perché, come i lettori più addentro avranno già capito, per me è lo stesso approccio attuale di regolamentazione bancaria a essere radicalmente errato (un recente assaggio ce l’ha dato l’AQR della BCE, che, per effetto dei Risk Weighted Assets, ha richiesto molto più capitale alle banche che fanno credito all’economia che a quelle che fanno finanza). Ma oltre ai ragionamenti economici c’è molto di più che riguarda i valori della società che vogliamo lasciare ai nostri figli e nipoti. Spero di avere modo di parlarne in futuro.

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