Gli immigrati rubano lavoro gli italiani? Il modo in cui il nuovo governo ha deciso di affrontare il fenomeno migranti riaccende sentimenti contrastanti nella società italiana. Chi è per l’accoglienza è accusato di buonismo o di atteggiamento radical-chic, chi è per il respingimento a muso duro passa per il difensore dei diritti dei nativi. Tra questi diritti il più sbandierato è quello al lavoro, insidiato dalla concorrenza dello straniero. Come ha spiegato Alberto Alesina sul “Corriere della Sera”, i nativi tendono psicologicamente a sovrastimare il problema dei migranti: per esempio, per ogni vero immigrato ne vedono tre. A riportare alle giuste proporzioni il fenomeno sul fronte del lavoro è stato da poco pubblicato uno studio basato su un giacimento di dati non ancora sfruttato ma di indubbia autenticità: gli archivi dell’Inps, che registrano l’universo dei lavoratori nel settore privato non agricolo, in un arco temporale che va dal 1995 al 2015. Vent’anni di storia dell’immigrazione attraverso le caratteristiche socio- demografiche dei lavoratori migranti, il loro ingresso nel mercato del lavoro, la loro mobilità sul territorio, e una stima sulle differenze salariali con gli italiani o meglio: come i salari degli italiani hanno reagito all’offerta di lavoro dei migranti. Su quest’ultimo punto l’analisi empirica dà un risultato che rovescia la vulgata, perché in realtà la concorrenza dei migranti ha un effetto positivo – anche se piccolo – sul livello della paga del nativo.
Gli autori dello studio (Maria Cozzolino, Edoardo Di Porto, Enrica Maria Martino, Paolo Naticchioni), pubblicato sulla rivista “Economia italiana”, partono dall’individuazione dell’universo da esaminare. Sui 5 milioni di stranieri registrati dall’Istat, che include in questo numero tutti quelli che non hanno la cittadinanza italiana, di cui 1,8 milioni dipendenti da imprese private (sono esclusi gli autonomi, i dipendenti pubblici, i lavoratori domestici), si concentrano sui lavoratori extra comunitari, circa un milione e duecentomila nel 2015.
Innanzitutto il loro identikit. Rispetto alla loro distribuzione sul territorio nazionale, due terzi si trovano al Nord, il resto al Centro, con una crescita anche al Sud tra il 2008 e il 2012. La loro età è per la maggior parte inferiore ai 45 anni (ma è in crescita, a testimoniare l’invecchiamento di questa popolazione nel nostro territorio); dal 1995 al 2015 si è dimezzata la quota impegnata nell’industria manifatturiera (dal 40 al 24 per cento), come pure si è ridotta quella nell’edilizia, mentre è aumentata l’occupazione nei trasporti e nei servizi.
Ma è la comparazione tra migranti e nativi il nodo della ricerca. In quali categorie i primi sono più rappresentati? I migranti sono nettamente superiori ai nativi nel settore operaio: qui l’indicemigrante/nativo è passato dall’1,42 del 1995 all’1,66 del 2015, ma questo non per l’aumento dei migranti, quanto soprattutto perché si è ridotta la presenza dei nativi e anche perché, come si diceva, il manifatturiero ha perso peso specifico nel tessuto produttivo. La concentrazione più alta è invece in altri settori: quello edilizio, e quello della ristorazione e degli alberghi, dove il rapporto tra la quota dei migranti e quella dei nativi è intorno al 2: cioè ci sono 11,8 migranti ogni 6,87 nativi nelle costruzioni, e 17,71 migranti ogni 8,43 nativi nell’alberghiero (dati 2015).
La questione cruciale resta il rapporto tra i salari degli uni e degli altri. Qui i dati Inps, presso cui si registrano le retribuzioni lorde, testimoniano che i salari dei migranti subivano una penalizzazione del 30 per cento nel 1995, che con il tempo è aumentata fino al 40 per cento. La spiegazione – ragionano gli autori della ricerca – non è una recrudescenza dello sfruttamento, ma potrebbe dipendere dal fatto che i migranti sono lavoratori più giovani e meno qualificati. Anche mettendo a confronto lavoratori, italiani e non, della stessa età e mansione, la penalizzazione resta, ma si riduce al 13 per cento (era al 20 a inizio periodo). Qualche esempio? Nel 1995 il salario lordo mediano di un migrante nel settore agricoltura era di 1.559 euro contro i 1.823 di unnativo; dopo vent’anni il primo è sceso a 1.483, il secondo è salito a 2.041. Nelle costruzioni il primo passa da 1.502 a 1.716, il secondo da 1.600 a 1.838. Nei trasporti, da 1,630 a 1,713 il primo, da 1,860 a 2,201 il secondo.
Se le disparità sono radicate, un elemento di parziale compensazione potrebbe essere la maggiore disponibilità dei migranti a rispondere alla domanda di lavoro laddove questa è sovrabbondante, inseguendo l’occupazione dove c’è: questa mobilità, accentuata dal fatto che si tratta di individui privi di legami stabili nel nostro territorio, riporterebbe insomma il mercato in equilibrio, cioè non inciderebbe sull’occupazione dei nativi, non toglierebbe loro il lavoro.
Per approfondire le modalità di comportamento dei migranti, lo studio fa un un ingrandimento specifico sugli effetti della sanatoria del 2002 prevista dalla legge Bossi-Fini, che ha fatto emergere 650 mila lavoratori: la metà di questi erano nel lavoro domestico, gli altri migranti che lavoravano come dipendenti nelle imprese, e che hanno potuto a quel punto muoversi liberamente sul territorio per rimanere occupati. Ebbene, i dati Inps consentono di individuare sia le imprese che hanno chiesto la regolarizzazione, sia i lavoratori emersi, circa 210 mila (in gran parte in Lombardia, Veneto, Lazio). Sono in gran parte uomini sui 30 anni, che hanno la qualifica di operaio, molti part-time. Ebbene, confrontando il loro comportamento con quello dei lavoratori italiani assunti nello stesso periodo ma senza regolarizzazione, si riscontra che il “tasso di sopravvivenza” nell’impiego degli italiani è più basso di quello degli stranieri. Dopo cinque anni dalla regolarizzazione questi ultimi sono ancora impiegati nel settore privato, e sono anche i più mobili: cercano più attivamente degli italiani un nuovo lavoro, e si muovono sul territorio più frequentemente per rimanere “attaccati” all’impiego. Una necessità, questa, indotta anche dal fatto che senza verrebbe meno il permesso di soggiorno, ma che si riflette comunque sulla tendenza a una maggiore integrazione e nella diminuzione del tasso di criminalità.
Infine, il livello dei salari. Abbiamo visto che i migranti guadagnano di meno dei locali; ma questo produce una concorrenza al ribasso? Gli economisti autori dello studio hanno costruito un modello per stimare quale sia l’effetto economico di uno shock dell’offerta dei migranti sul salario dei nativi. “I risultati delle nostre analisi” scrivono, “mostrano come l’ingresso dei migranti nei mercati locali del lavoro non indebolisce ma anzi aumenta, seppure in maniera molto lieve, i salari dei nativi: una variazione dell’offerta di lavoro migrante del 10% spinge i salari dei nativi in alto di 0,1%”. Insomma sorprendentemente la presenza dei migranti rende più gonfie le buste paga degli italiani. Se concorrenza c’è, è a tutto vantaggio di chi vede l’arrivo degli stranieri come un pericolo e un impoverimento.