Subito dopo la formazione del governo Conte, nel giugno dello scorso anno, la previsione più ricorrente era che sarebbe caduto dopo le elezioni europee dell’anno successivo. Dopo le elezioni di maggio, con il successo della Lega e la conferma che il suo sistema di propaganda, la cosiddetta Bestia, funzionava bene, la previsione di una crisi imminente era diventata talmente ovvia che si stentava a crederci. Ora che la crisi è arrivata, sembra necessario allontanarsi dagli aspetti immediati e cercare di capirne più a fondo il senso.
Come si ricorderà, questo governo era nato in stato di necessità, come risultato di elezioni proporzionali che avevano visto il successo di due diversi partiti neo-populisti che si erano impegnati in campagna elettorale su programmi notevolmente differenziati ma entrambi con promesse economicamente costose (ad esempio, il reddito cittadinanza per il Movimento 5 Stelle, e quota 100, flat tax e autonomia per la Lega). Seguendo l’esempio tedesco, il programma del governo era stato formalizzato in una sorta di contratto, un artificio formale per rendere possibile e digeribile dall’elettorato un accordo molto difficile. In realtà, un accordo del genere era un tentativo di risposta al problema della governabilità in un contesto politico radicalizzato.
Questa, però, è una situazione in cui si sono già trovate numerose democrazie contemporanee. Più precisamente: ragioni diverse, dovute a insoddisfazioni per la crisi economica, per il crescere della povertà, per il fenomeno migratorio, per le trasformazioni del sistema industriale e del lavoro, hanno spinto diverse democrazie verso la radicalizzazione.
In misura e con caratteristiche diverse tra loro, democrazie come quella statunitense, inglese, spagnola, francese, brasiliana e diverse altre si sono radicalizzate con la presenza di nuovi attori/partiti politici con posizioni tra loro distanti, ovvero con la trasformazione in senso più estremista degli stessi partiti esistenti che esprimono o sfruttano la crescita dei conflitti socio-economici e culturali.
Ma come si governa una democrazia radicalizzata?
Esistono solo due modi. Il primo è superare la radicalizzazione cambiando le regole politiche di fondo in modo da avere maggioranze artificiali che permettano di governare. Si tratta, cioè, di varare leggi elettorali maggioritarie e di conferire un forte potere di direzione politica al governo a scapito del parlamento. Questa soluzione è efficace se inserita in un contesto burocratico funzionante che consente di mettere a frutto i vantaggi di un processo decisionale più efficiente e rapido. L’aspetto negativo è che le soluzioni maggioritarie possono alimentare uno scontento che rimane sotto traccia anche per diverso tempo, ma poi esplode spesso in modo violento creando altri problemi. Si pensi alla Francia, che ha scelto da molti decenni la via maggioritaria e al fenomeno dei Gilet Jaunes dell’ultimo anno.
La seconda modalità è ricorrere a soluzioni negoziali da parte di attori politici responsabili. Ovviamente la seconda via è più facile da percorrere se la radicalizzazione non è troppo forte, come nel caso tedesco, dove alla fine il contratto ha funzionato e sta funzionando. Il requisito indispensabile per la praticabilità di questa via è la presenza di leader politici (responsabili) in grado di mettere in primo piano gli interessi collettivi rispetto ai propri o a quelli del proprio partito. In ogni caso si tratta di una condizione poco stabile. Ovvero se cambiano le condizioni di fondo dell’accordo, anche solo nel ribaltamento delle posizioni elettorali, le basi dell’accordo vengono meno, di solito insieme all’accordo stesso.
L’Italia, la cui radicalizzazione si è accentuata dopo il 2008 come conseguenza della crisi economica, ha a lungo perseguito la prima modalità ovvero l’approvazione di riforme istituzionali. Ma alla fine (2016) un eccesso di ambizione da parte di Renzi rispetto ai risultati che si volevano raggiungere, una democrazia nettamente maggioritaria, ha portato al fallimento di questa soluzione. La crisi governativa ora sancisce il fallimento anche della seconda modalità. Ma altre possibilità la politica democratica non ne conosce.
Allora, che succederà? Verosimilmente, se alla fine ci fossero nuove elezioni politiche proporzionali, si insisterà sulla seconda modalità che rimane quella che conferisce un ruolo centrale ai leader politici maggiore rispetto alla prima.