Una valutazione più accurata di queste elezioni europee deve partire dalle domande che ci ponevamo prima del 26 maggio.
Quando l’Europa non era entrata nel dibattito pubblico perché ancora un club di élite al governo, e nelle stanze chiuse di Bruxelles si decideva su temi che avrebbero avuto un impatto solo su limitati settori economici, le elezioni per il parlamento europeo avevano campagne elettorali – ad esempio, con le prime elezioni del 1979 – che nel migliore dei casi dibattevano di temi interni che stavano a cuore alle élite politiche nazionali.
Poi vi è stata una serie di trattati, l’ultimo quello di Lisbona del 2007, oltre all’introduzione dell’euro, che hanno cambiato completamente il quadro. Oggi le elezioni europee sono un’occasione sia per valutare il governo in carica nel paese, che per definire meglio l’“Europa che vorremmo”.
Quali sono state, quindi, le domande che ci siamo posti? Innanzi tutto, dopo i risultati del 2014 con gli euroscettici al 20% circa, di quanto sarebbero cresciute le forze antieuropee? E quale partito avrebbe avuto la maggioranza relativa ovvero avrebbe potuto indicare il presidente della Commissione? E, poi, passando alla dimensione nazionale, l’attuale governo avrebbe avuto ancora il sostegno di una solida maggioranza di italiani? E di quanto sarebbe cresciuta la Lega rispetto al marzo dello scorso anno? Quando avrebbe perso il Movimento 5 Stelle? Sarebbe rimasto sopra il PD?
Rispetto alla prima domanda, come atteso, le forze euroscettiche sono cresciute senza riuscire ad avere la maggioranza, ma il dato più importante e non atteso è stata anche la crescita di forze come i Verdi e altre portatrici di una domanda di cambiamento. Non sappiamo quali saranno gli esiti effettivi di questo risultato, ovvero dell’emergere – è questa l’effettiva novità – di una maggioranza non euroscettica ma che può trovare consonanze su politiche di cambiamento. Ma il tempo delle famiglie partitiche tradizionali che determinavano le politiche sembra finito e inevitabilmente l’azione parlamentare risentirà di tutto questo.
Poi, durante questa campagna elettorale è successo qualcosa di nuovo rispetto al 2014 sugli spitzenkandidaten, ovvero i candidati alla presidenza della Commissione. Seguendo un articolo del trattato di Lisbona, nel 2014 il confronto era avvenuto con molta nettezza tra due candidati, JeanClaude Juncker e Martin Schulz, che avevano visitato quasi tutti i paesi dell’Unione e reso praticamente invisibili gli altri candidati. Questa volta quasi ogni partito europeo ha nominato uno, talvolta due (i Verdi e la Sinistra) e in un caso più candidati (i liberaldemocratici), ma nella campagna non sono emersi con nettezza dei leader forti. In breve, anche se il partito popolare otterrà la maggioranza relativa, è difficile che Manfred Weber, il loro candidato, venga proposto per la presidenza della Commissione, che prevedibilmente sarà il risultato di un accordo dietro le quinte, probabilmente, tra popolari, socialisti e liberaldemocratici.
La vera sorpresa viene dalle elezioni italiane, non tanto perché vi stata la crescita della Lega, un declino netto dei 5 Stelle e un sorpasso da parte del PD. Tutto questo era atteso. La sorpresa viene dalle entità del cambiamento elettorale, e un 2% in meno di partecipazione rispetto al 2014 non le spiega. In breve, la Lega cresce del 16,9 raddoppiando i voti rispetto al 2018 ed evidenziando una presenza in tutto il territorio nazionale; il M5S diminuisce del 15,6 dimezzando i propri voti e concentrandosi soprattutto nel Sud; il PD cresce del 4%. Si può aggiungere, per definire meglio il quadro, che il governo ha sempre una maggioranza risicata (anzi ha un punto in più in percentuale, 51,4 a fronte del precedente 50,1), ma a parti totalmente invertite; che una possibile coalizione di destra (Lega, Fratelli d’Italia e Forza Italia) ha quasi il 50% (49,6), senza considerare Casapound (0,3) e Popolari per l’Italia (0,3); che l’intera sinistra (PD, +Europa, Sinistra e PCI) con i verdi (2,3) raggiunge il 30% circa (31,7).
In prospettiva italiana, questo quadro dà alcune evidenti indicazioni: a livello di sistema partitico siamo ancora in una fase di transizione elettorale, in cui i voti si spostano non tanto tra astensione e partecipazione, che pure c’è, ma soprattutto tra partiti, anche all’interno della stessa area; il PD può riprendere il suo spazio perché considerato più credibile come sinistra; per i 5 Stelle i costi del passaggio da partito di protesta a partito di governo sono più alti del previsto: stare al governo come partito camaleonte che si adegua alle domande sociali (la formula dei 5 Stelle) sembra rendere di meno della formula lideristica (quella della Lega) che neanche presenta un programma elettorale ma spinge sul sovranismo e anti-immigrazione, ovvero sulle necessità di protezione sociale sentite da diversi ceti.