Pubblichiamo in anteprima l'editoriale in uscita sul numero 1/2019 di "Economia Italiana" Per approfondire: convegno "La rivoluzione digitale: opportunità e rischi", Roma 20 marzo. (https://economiaitaliana.org/wp-content/uploads/2019/03/Locandina-Convegno-Economia-Italiana-Economia-Digitale-20-marzo-2019-def.pdf) Per iscriversi: redazione@economiaitaliana.org
In questo numero, la Rivista ospita tre saggi dedicati all’economia digitale. Si vuole, in tal modo, approfondire la conoscenza su un fenomeno- quello della cosiddetta rivoluzione digitale- che è ormai parte delle abitudini quotidiane di tutti noi e ciononostante resta quantomeno sfumato nelle sue dimensioni economiche. Le stesse modalità con cui trattare il fenomeno restano di non immediata definizione.
Assimilando quella digitale a una rivoluzione tecnologica, si è infatti portati a verificarne la portata dal lato dell’offerta, al pari di quanto fatto con le precedenti “rivoluzioni industriali”. Dunque a cercarne gli effetti sull’efficienza delle produzioni, sul conseguente ribasso dei prezzi finali di vendita e sul beneficio finale che ne discenderebbe per i consumatori. In sostanza, a concentrarsi sul movimento verso destra della curva di offerta aggregata che, a parità di domanda, porterebbe a un equilibrio caratterizzato da quantità vendute più alte e prezzi di vendita più bassi.
Nell’assunzione sull’invarianza della domanda aggregata si nasconde però l’insidia di un’impostazione che, se così limitata, mancherebbe di cogliere la vera complessità della rivoluzione digitale. Non tanto perché sarebbe comunque necessario valutare il saldo netto dei processi innovativi sull’occupazione e sulle retribuzioni, che se negativo comporterebbe una traslazione verso il basso della curva di domanda, tale da limitare l’impulso espansivo proveniente dal lato dell’offerta.
Un aspetto trattato anche in questo volume, seguendo l’approccio manageriale, con le brevi note di Navarra e Torcellan, che sottolineano come centrale sia il continuous learning della forza lavoro, senza nascondere al contempo che nell’industria bancaria il procedere dell’innovazione digitale si tradurrà in una riduzione del 15-20% dell’attuale occupazione. L’impatto sul lavoro è comunque un problema ampiamente trattato nell’analisi degli effetti dell’innovazione, che comporta sempre un processo di “distruzione creatrice”, di cui bisogna essere certo pronti a valutare l’esito finale, ma che nell’esperienza passata sembra il più delle volte essersi risolto in termini positivi. Tanto che non mancano i contributi della letteratura che ripropongono per l’economia digitale il consueto concetto della “compensazione”, per cui l’iniziale impatto “labour-saving” dell’innovazione verrebbe più che bilanciato, nel lungo periodo, attraverso l’aumento della domanda associato alla commercializzazione dei nuovi beni e servizi, alle riduzioni di prezzo, agli incrementi di reddito favoriti della maggiore produttività. Appunto il prevalere degli effetti innescati dallo spostamento della curva di offerta aggregata.
La questione si complica, tuttavia, quando si consideri che la rivoluzione digitale sembra passare prima dal lato della domanda che da quello dell’offerta o quantomeno sembra interessare le due curve per canali indipendenti e non necessariamente gerarchici. La rilevanza del digitale, prima ancora che nell’efficientamento dei processi produttivi o nella diffusione dell’intelligenza artificiale, si è infatti manifestata mettendo a disposizione del consumatore nuovi strumenti di posizionamento sul mercato (oltre che di autoproduzione). Semplificando, si può ritenere che le piattaforme digitali, attraverso le quali è sostanzialmente possibile confrontare in ogni momento l’intero vettore dei prezzi di ogni singolo bene, hanno avvicinato come non mai il sistema economico alla configurazione ideale del banditore walrasiano.
Con ciò che ne consegue in termini di spostamento del potere di mercato verso il consumatore e, ancor più, di vera e propria crisi di tutta quella vasta area di intermediazione a cui è stato sempre affidato il collegamento fra produttore e, appunto, consumatore. Una rivoluzione “demand side” che asciuga necessariamente la matrice dell’offerta sottostante l’acquisto di beni e servizi, lasciando indeterminati gli effetti finali su prezzi e quantità. potendo ben vanificare, negli effetti aggregati, gli impulsi espansivi trasmessi dall’innovazione digitale attraverso i guadagni di produttività.
Anche questa lettura, peraltro, pecca di semplicismo, perché manca di considerare come, a fronte di un apparente avvicinamento del consumatore a una condizione di concorrenza perfetta, stiano i processi di concentrazione industriale che stanno spostando il potere di mercato verso le cosiddette “superstar” del mondo digitale.
A questa contraddizione di fondo si aggancia il primo saggio qui presentato, a firma di Andrea Pezzoli, che affronta il tema del digitale dalla prospettiva delle politiche della concorrenza. Nella prima parte del contributo, significativamente, l’autore segnala come la specificità dei mercati senza prezzo richieda, “più di altri aspetti di rilievo tipici dell’economia digitale, una complementarietà tra interventi antitrust, di tutela del consumatore, regolatori e di protezione dei dati personali”. L’ampliamento delle possibilità di scelta del consumatore ha cioè come contraltare una nuova esposizione a forme di abuso da potere da parte di chi gestisce le piattaforme di scambio digitale.
L’assenza di un prezzo nello scambio tra utente e piattaforma non implica infatti una gratuità del servizio, quanto il passaggio a una situazione di “baratto”, il cui il consumatore offre come mezzo di scambio i propri dati personali. Una situazione di per sé non nuova, perché, come ricorda l’autore, già tipica del settore dei media, tradizionalmente caratterizzato per scambi non monetari tra l’attenzione dello spettatore e i contenuti delle televisioni in chiaro o della free press.
In questo settore, a mettere mano al portafogli è l’inserzionista pubblicitario, esattamente come accade per le piattaforme digitali. Già con una prima differenza importante, tuttavia, perché se nel mondo dei media il portafoglio dell’inserzionista serve a finanziare l’offerta editoriale (ossia un servizio finale per il consumatore), nelle piattaforme digitali i proventi alimentano una funzione di tipo indiretto, ossia di intermediazione fra consumatori e produttori di beni e servizi. Intermediazione che quindi non scompare, ma da fisica diventa digitale, senza che il consumatore ne abbia, presumibilmente, piena contezza.
Così come è la presenza di un intermediario digitale che consente di assegnare un valore monetario ai dati, senza che quest’ultimo venga peraltro reso noto al consumatore. Da qui l’opportuno richiamo a contributi non ortodossi per cui “se si guarda agli utenti dei servizi gratuiti non come consumatori ma piuttosto come produttori, come lavoratori dei dati, il quadro che emerge, in una lettura quasi-marxiana, è un quadro di sfruttamento, dove il lavoro dei fornitori di dati, al pari di quello delle casalinghe, viene dato per scontato e non remunerato (o comunque sottopagato).
Questo spiegherebbe perché, ad esempio, solo l’1% del valore prodotto annualmente da Facebook viene destinato al lavoro (di fatto ai programmatori) a fronte dell’oltre 40% destinato ai salari da Walmart (che tradizionalmente non spicca per un atteggiamento pro labour…)”. E dunque secondo Pezzoli “la protezione dei dati individuali, la trasparenza e l’informazione necessaria per una scelta consapevole del consumatore rappresentano fattori qualitativi fondamentali per il confronto concorrenziale tra piattaforme digitali”, tale per cui “il potere monopolistico, concettualmente legato alla capacità di aumentare unilateralmente il prezzo, si estende alla capacità di ridurre unilateralmente la qualità del servizio (intesa come minore protezione dei dati individuali)”. Un evidente campo di elezione per le tutele di cui si fa garante la politica per la concorrenza.
Politica che, ci dice Pezzoli nella seconda parte del suo lavoro, deve comunque porsi il problema di come acquisire quella flessibilità necessaria a confrontarsi con la componente distruttiva delle tecnologie digitali. L’intensità del fenomeno è oggi tale da determinare “un contesto nel quale la transizione dal vecchio al nuovo può implicare significativi costi sociali”, per cui sarebbe insensato pensare di applicare la normativa anti-trust in un’accezione di ordinaria amministrazione.
In realtà, il nuovo ambiente digitale dovrebbe sollecitare una nuova collaborazione fra politica della concorrenza e altre branche della politica economica (da cui il titolo del saggio “With a little help from my friends”). Se da una parte “la strumentazione propria della tutela del consumatore e dell’autorità preposta alla protezione dei dati individuali può risolvere in senso pro-concorrenziale situazioni dove non emergono restrizioni del processo competitivo”, dall’altra “una serie di misure volte a facilitare la libertà di uscita e a proteggere i soggetti maggiormente esposti alla durezza delle nuove tecnologie (in particolare i lavoratori ma anche le imprese) si prospettano come un arricchimento significativo per una politica della concorrenza adeguata alla sfida dell’economia digitale”.
Se il primo contributo vale a dare un’efficace rappresentazione di quanto articolato, ampio e intrecciato possa essere il tema dell’economia digitale, il secondo saggio, a firma di Giuseppe Cinquegrana, ci pone di fronte a un problema che, seppur di fondo, resta a tutt’oggi irrisolto. Qual è l’effettiva dimensione dell’economia digitale e quali i suoi reali impatti sulle dinamiche di fondo della produttività?
Qui, venendo a parlare di produttività, ci si confronta, inevitabilmente, con elementi che sembrano essere peculiari alla sola economia italiana e che si ripresentano nelle stime fornite dall’autore. L’argomento è trattato sotto due diverse angolature. Dapprima, ci si sofferma sui potenziali errori di misurazione che, nella Contabilità nazionale, viziano le serie dei deflatori dei prodotti ITC. Errori di sovrastima, che cioè aumentano i prezzi e di conseguenza riducono i volumi, rispetto ai quali è calcolata la produttività. Tanto maggiore la sovrastima dei prezzi, dunque tanto più ampia la sottostima sugli effettivi andamenti della produttività. Dal momento che l’evidenza grafica fornita dall’autore mostra come la crescita dei deflatori ITC sia in Italia assai più pronunciata che altrove, è legittimo chiedersi se ciò nasconda un errore di misurazione con dimensioni superiori alla media.
Per testare questa ipotesi, l’autore sviluppa un modello contabile che, vincolato ad alcune ipotesi di benchmarking, consente di costruire delle serie dei prezzi “corrette”. La stima del modello consente di identificare una sovrastima dello 0,33% della dinamica dei prezzi. Un valore in linea con quelli riscontrati dalla letteratura in altri paesi, ma che da noi assume un significato peculiare. “Considerando infatti che in Italia la produttività del lavoro è aumentata, nel periodo considerato, dello 0,3% in media annua, una correzione nelle dimensioni da noi rilevate porterebbe a quasi raddoppiarne le dinamiche. A conferma della componente idiosincratica che l’analisi della produttività assume quando riferita all’economia italiana”.
Componente che trova ulteriore declinazione nel secondo modello sottoposto a stima da Cinquegrana, con il quale si cerca di cogliere la relazione che lega la diffusione dell’innovazione digitale alle dinamiche della produttività. Anche in questo caso si parte da un’evidenza grafica, che confronta il livello raggiunto da un indicatore di diffusione digitale elaborato dalla Commissione europea (Indicatore DESI), rispetto al quale, nelle diverse dimensioni, l’Italia appare in forte ritardo (anche se in recupero negli anni più recenti). Quanto questo ritardo può spiegare la bassa dinamica relativa della produttività italiana? I risultati della stima econometrica offrono a questa domanda una risposta non rassicurante. Il coefficiente di elasticità che lega innovazione digitale e produttività avrebbe infatti un valore prossimo allo zero, di gran lunga il più basso fra i paesi analizzati.
Se gli indicatori di base confermano dunque come l’Italia abbia accumulato un considerevole ritardo nel passaggio al digitale, la questione vera risiede nel fatto che alla crescita della dotazione digitale non sta comunque corrispondendo alcun significativo impulso sulla produttività. Come conclude l’autore, “ci troveremmo quindi di fronte sia a un problema di dotazione di base, sia ad un vero e proprio svantaggio competitivo, determinato dalla presenza di un più debole legame, rispetto ad altre economie, fra innovazione digitale e produttività”. Sembra chiaro che si palesa qui un’urgenza che sarebbe bene mettere al centro dell’agenda di politica economica.
Nel terzo saggio, a firma di Loredana Carpentieri, Stefano Micossi e Paola Parascandolo, l’economia digitale è letta come un ulteriore fattore di difficoltà per l’adozione di un efficiente sistema di tassazione delle imprese.
Inquadrando il tema da un punto di vista storico, gli autori considerano, tra l’altro, l’avvento dei modelli produttivi digitali in linea di continuità con quanto avvenuto con i processi di internazionalizzazione. Come da anni le imprese con attività molto internazionalizzate hanno “imparato ad utilizzare a proprio vantaggio le lacune e le asimmetrie esistenti tra gli ordinamenti fiscali nazionali per abbattere il prelievo complessivo”, così ora “l’impresa globale produce profitti a livello globale e questi profitti, con la digitalizzazione dell’economia, non sono più facilmente collegabili ai mercati sui quali l’impresa è attiva: in questo mondo anche i ricavi d’impresa diventano mobili, al pari dei flussi di dividendi, interessi o royalties, con significativo impatto sulla fiscalità dei paesi in cui sono realizzati”.
Ne consegue una disparità di trattamento fra imprese perché, con ‘attuale sistema, “quelle con grado elevato di digitalizzazione registrano un carico fiscale inferiore rispetto a quelle più tradizionali”. Anche in questo terzo saggio emerge poi la rilevanza del doppio ruolo svolto dal consumatore, in quanto acquirente di beni e servizi su piattaforme digitali e allo stesso tempo generatore inconsapevole di valore. Infatti, “una parte rilevante del valore delle imprese che operano sul digitale è in concreto realizzata dai suoi utilizzatori, attraverso le informazioni che questi forniscono”.
Proprio per la loro capacità di estrarre valore da informazioni che valore non hanno prima di essere immesse sulle piattaforme, gli autori evidenziano come le imprese del digitale possano essere considerate come “”le imprese estrattive del terzo millennio”. Col non irrilevante problema che la materia prima viene estratta senza dar luogo a transazioni di mercato e quindi senza essere sottoposta a tassazione. Per i sistemi fiscali la sfida che si pone è allora “quella di accompagnare le transizioni che le imprese stanno vivendo, trovando nuove modalità di tassazione per i loro nuovi modelli di business”.
Gli autori sembrano qui esprimere una preferenza per modello di Cash Flow Tax, ossia per la tassazione diretta delle risorse finanziarie che scorrono nelle casse delle imprese. Con un vantaggio duplice, pur nella riconosciuta complessità di questa riforma, perché “i flussi di cassa sono più facili da rintracciare e più difficili da manipolare degli utili”. Si realizzerebbe, in tal modo, “una semplificazione significativa del sistema rispetto al modello attualmente in vigore, con forti guadagni in termini di neutralità ed efficienza del sistema fiscale rispetto alle scelte di investimento e di finanziamento delle imprese”. E sarà da verificare, nel tempo, se fra i portati della rivoluzione digitale vi potrà essere anche una spinta alla costruzione di sistemi di prelievo che minimizzino gli ostacoli posti all’attività di impresa.
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