Come catalogare l'arrivo del virus? Un cigno nero o un rinoceronte grigio? Imprevedibile o prevedibile? E con quali strumenti culturali - e quali illusioni - sta reagendo la nostra società? Ecco qualche stimolante spunto su cui riflettere
Anche Nassim Taleb, che ne è in un certo qual modo il padre, sembrerebbe aver affermato che lo scoppio del Coronavirus non è un Cigno nero, in quanto difetterebbe della caratteristica dell’imprevedibilità, quanto piuttosto un Rinoceronte Grigio – espressione coniata da Michele Wucker, nel suo libro The Gray Rhino – , uno di quegli eventi cioè ampiamente prevedibili ma a lungo sottovalutati, quanto non proprio del tutto ignorati.
Con questa affermazione, il discorso potrebbe chiudersi qui, e a favore del Rinoceronte Grigio (che in effetti sta guadagnando posizioni anche fra gli opinionisti): appartenendo però a quella schiera di scettici empirici che proprio Taleb con i suoi saggi ha ampiamente foraggiato, e non avendo udito con le mie orecchie le sue parole, mi permetto di sollevare qualche dubbio.
Per farlo, ripassiamo insieme le caratteristiche del Cigno Nero, cercando di non semplificarle troppo, come viceversa – ho la sensazione – sia avvenuto in questi giorni.
Nel Prologo del suo libro “Il Cigno Nero. Come l’improbabile governa la nostra vita”, Taleb ne riassume le tre caratteristiche principali nella rarità, nell’impatto enorme e nella prevedibilità retrospettiva (ma non prospettiva). Quest’ultima caratteristica ci dice in sostanza come dopo la comparsa di un Cigno Nero, è alquanto tipico l’affannarsi nella ricerca di prove della sua prevedibilità.
Torna in mente il video del Ted talk di Bill Gates del 2015, divenuto virale, in cui il fondatore della Microsoft sosteneva che la prossima grande prova per l’umanità sarebbe stata non una guerra nucleare, cui tutto sommato saremmo preparati perché abbiamo investito per proteggerci da un pericolo del genere, ma un potentissimo virus che avrebbe provocato milioni di morti, e che ci coglierà impreparati.
Insomma, “se si cerca si troverà sempre qualcuno che ha pronunciato una frase altisonante a conferma del nostro punto di vista”, sottolinea nelle sue pagine Taleb, e così sta avvenendo per cercare di dimostrare che il Coronavirus era prevedibile. E poi diciamocelo: è realistico pensare di poter vivere in uno stato di perenne, sine die, allerta e preparazione per l’arrivo di un virus (non meglio identificato)?
Inoltre, come non notare che la comparsa di un virus molto aggressivo sia prevedibile né più né meno quanto lo scoppio di una crisi finanziaria – si tratta di eventi che, prima o dopo, rientrano nell’ordine naturale delle cose – , ma nessuno ha messo in dubbio – direi correttamente – che a questo punto anche la crisi finanziaria del 2008, che è stato uno dei cavalli di battaglia di Taleb per la costruzione delle sue teorie, potrebbe non essere un Cigno Nero.
Certo vi è da dire come il Rinoceronte grigio sia apparso con il libro di Wucker solo nel 2016, quindi vi potrebbe essere una naturale tendenza a scegliere, nello zoo della finanza, un animale “nuovo”, solo perché l’altro, il precedente, lo si è in parte dimenticato (e come dicevo poc’anzi , in parte banalizzato), e comunque per apparire più aggiornati.
Ma vi è di più. “Categorizzare è necessario per gli esseri umani, ma diventa patologico se le categorie diventano fisse e impediscono di prendere in considerazione l’indeterminatezza dei confini o la possibilità di modificarli”, afferma Taleb: quindi piuttosto che prendere una posizione netta, a favore dell’una o dell’altra categoria – e scommetterei che Taleb si è ben guardato dal farlo – , il Coronavirus ci mostra anche i limiti di questo zoo della finanza, che finiscono per proporre semplicemente altre categorie. Quindi il punto è un altro, con buona pace sia dei cigni neri che dei rinoceronti grigi.
La realtà è infatti sicuramente più complessa.
Quel che è certo è che la storia non striscia, salta; e soprattutto che anche se noi agiamo, viviamo, lavoriamo, e forse anche amiamo, come se fossimo in grado di prevedere gli eventi storici o, peggio ancora, come se potessimo incidere sul corso della storia, non è affatto così, anzi.
Per questo fa un po’ sorridere chi già si è messo all’opera per prevedere un futuro dove la tecnologia avrà un peso sempre maggiore (un futuro quasi terrificante con realtà aumentata attraverso cui si potrà provare un abito; droni che faranno le consegne; interventi chirurgici a distanza grazie alla tecnologia 5G, con pochi specialisti che impartiranno istruzioni in tutto il mondo superando così i gap geografici).
Senza considerare che non sappiamo, e non possiamo sapere allo stato, se tutta questa tecnologia sarà sostenibile, perché essa dipende da materie prime che si trovano solo in alcune parti del mondo e che già erano in esaurimento “prima” del virus, e che ora potrebbero divenire sempre più inaccessibili per l’effetto di un più rapido abbandono della filiera produttiva unica globale (da cui rinasceranno forse le filiere regionali che erano state smantellate, ma dalle quali, di certo, non si alimenta la tecnologia). Quando il mondo era poco globalizzato, le filiere produttive erano nazionali e la temporanea chiusura di una filiera non si ripercuoteva sulle altre.
È in effetti proprio di queste ore l’allarme di Zuckerberg sul possibile crollo dei server di WhatsApp e Messenger, perché le infrastrutture di Menlo Park potrebbero non riuscire a reggere il traffico, che in Italia e in altri Paesi è più che raddoppiato a causa del virus, se lo stesso aumentasse anche in nazioni che non sono state ancora interessate da provvedimenti così severi di lockdown (come è possibile avvenga perché l’opinione pubblica, proprio a causa dell’eccesso di informazione cui siamo sottoposti, è sempre più emotiva – sicuramente lo è di più dei tempi dell’asiatica proprio perché “apparentemente” più informata – e difficilmente accetterà ancora posizioni in cui il virus venga derubricato ad un male con cui convivere). Con buona pace del nostro strampalato modo di comunicare, e della tecnologia di cui sopra.
Del resto, se mettessimo alla prova le misure di contenimento del virus con un paradosso come quello posto, a metà del Novecento, dalla filosofa anglosassone Philippa Foot con il suo c.d. problema del tram, ancora una volta crollerebbe tutto il nostro sistema di certezze, previsioni, categorie, razionalità: perché infatti accettiamo abbastanza tranquillamente che ci siano ogni anno innumerevoli vittime di incidenti stradali senza per questo vietare le automobili, mentre siamo così rigorosi con un virus e accettiamo di pagare un prezzo (economico) così alto per tentare (senza esserne sicuri) di contenerne le vittime?
Ricordiamoci infatti che il caso della Cina sta dimostrando come anche dopo avere contenuto o anche azzerato l’epidemia, con l’isolamento, si potrebbe finire comunque in un vicolo cieco: perché se si sconfigge il virus in un paese solo, ma il virus è ancora in circolazione, solo mantenendo chiuse le frontiere si evita il pericolo di essere ricontagiati, e in ogni caso, in un mondo come il nostro se si riavvia solo il proprio motore, questo
non potrà andare a regime finché non ci andranno anche i motori degli altri.
Società opulente e che oggi amano definirsi ipertecnologiche, si sono, in altre parole, scoperte sostanzialmente indifese e si sono arrese, come uniche difese reali, applicate sempre più su scala di massa, a strumenti di contenimento del virus che certificano che abbiamo fatto un salto indietro della medicina al Medioevo (ricordate? la storia procede per salti, in avanti ma anche all’indietro).
Oggi siamo in teoria più efficienti, ma in realtà più fragili e forse anche più poveri. La ridondanza è scomparsa e ha ceduto il posto all’ottimizzazione, che richiede la sopravvivenza del solo produttore più efficiente e la scomparsa degli altri: in tal modo, scopriamo che le mascherine si producono solo in Cina e che quando ne abbiamo bisogno la Cina, tendenzialmente, se le tiene per sé.
Per fortuna, e venendo in chiusura ai mercati finanziari, come ci insegna Nassim Taleb, se diamo il peggio di noi quando si tratta di prevenire un disastro, spesso diamo il meglio quando si tratta di reagire. Le banche centrali sono state nel complesso veloci, razionali e, dopo qualche breve esitazione, all’altezza dei problemi. Le politiche fiscali appaiono più confuse, meno coordinate e ancora insufficienti, ma rispetto alla crisi finnaziaria del 2008 si vedono evidenti progressi. È mancato un coordinamento formale tra monetario e fiscale, ma in filigrana qualcosa si intravede e nelle prossime settimane diventerà più evidente.
Certo ciò non toglie che – come ha ben sottolineato Alessandro Fugnoli, analista di Kairos, ai cui scritti molto sono debitrice per questo contributo – “se non mi arriva un componente dalla Cina (e tipicamente prodotto solo in Cina), non mi riappare miracolosamente grazie ai tassi più bassi o a un Quantitative easing più aggressivo”.