Emanuele Felice “Dubai, l’ultima utopia”, Il Mulino, Bologna, 2020 pagg.221, E. 15,00
Non è tutto oro quel che riluce! Il vecchio adagio sembra adattarsi alla perfezione a quest’ultimo libro di Emanuele Felice, Ordinario di Politica Economica all’Università D’Annunzio di Pescara, dedicato a quello che non è esagerato definire il modello Dubai. Un libro che si sviluppa lungo due direttrici fondamentali, in ciò rispondendo a due impliciti interrogativi: quali sono le reali ragioni del prorompente successo di questo modello; ma si è, poi, così sicuri che sia un un modello da seguire, o che piuttosto, non sia da rifiutare decisamente, nonostante le accattivanti apparenze?
L’A. ha scritto quest’opera sotto forma di reportage giornalistico, basato sull’esperienza diretta di viaggi e soggiorni in quella città, con uno stile sicuramente coinvolgente per il lettore. Un taglio che, però, non trascura le qualità indispensabili dell’accuratezza tipica del ricercatore economico, concedendosi, inoltre, alcuni apprezzabili sconfinamenti in campo sociologico.
Venendo all’impianto del libro, articolato in 5 capitoli, il lettore si imbatte inizialmente in una prima descrizione dei tratti essenziali di Dubai, incluso anche il riferimento alla suggestiva scritta ”Benvenuti nella città più felice del mondo”, che accoglie il visitatore all’aeroporto di Dubai, stimolandogli certamente una sensazione positiva che dura lungo il percorso che lo conduce alla metropolitana in direzione della città.
Una sensazione, poi, rinnovata e rafforzata dalla qualità dei servizi utilizzati e dalle immagini che si susseguono: dalla indiscutibile magnificenza di alcune costruzioni, tra cui spicca la Torre di Khalifa, la cui antenna sfiora gli 830 metri, agli altri edifici scintillanti di luci, all’ opulenza, infine, dei negozi del Centro Commerciale per eccellenza, Dubai Mall, forse la maggiore attrazione in assoluto di questo territorio.
Eppure, a conferma del proverbio inizialmente citato, la sensazione di sottile e pervasiva euforia lascia lo spazio ad un’altra di sincero sconcerto, quando l’A., soffermandosi con maggiore attenzione su quanto scorre sotto i propri occhi, rileva le incontrovertibili evidenze fattuali dell’ impatto brutale perpetrato sulla natura a seguito degli interventi sulla zona costiera; con la creazione di penisole artificiali a forma di palma per favorire lo sviluppo intensivo dell’edilizia residenziale. Purtroppo, fatta eccezione per il caso di Palm Jumeirah, questi interventi non si sono rivelati di felice esito, come crudamente testimonia il loro mancato completamento.
Né, poi, passando dalle considerazioni paesaggistiche a quelle legate alle caratteristiche del regime di monarchia autoritaria che, ormai, da decenni costituisce il tratto essenziale di Dubai e dell’altra città confederata, Abu Dhabi, si ricavano note più rassicuranti. Anzi. Scavando nel tessuto sociale di questa nazione, emergono particolari raccapriccianti, quali la totale assenza di diritti civili e di libertà politiche. Una privazione gravissima, solo in parte compensata dalle elargizioni spesso munifiche a beneficio esclusivo dei nativi che, comunque, – è bene sottolinearlo – costituiscono una minoranza della popolazione complessiva.
Per tutti gli altri, che in maggioranza provengono da altri Paesi, tragicamente contrassegnati da indici di marcata povertà, i livelli di salario ricevuti si collocano ben al di sotto degli standards occidentali. Ma quel che è peggio è che questi lavoratori vivono in una situazione di totale incertezza con un contratto triennale di lavoro, che può essere rescisso in qualsiasi momento e per qualsiasi ragione da parte dei loro datori; un aspetto che rivela la fragilità del sistema di tutele e garanzie riconosciute ai lavoratori stranieri.
La rassegna di elementi sconcertanti, rilevati da Felice nella sua indagine, include anche la mancanza di una reale legislazione fiscale (salvo qualche caso di imposizione indiretta) e di una adeguata normativa di controlli finanziari; aspetti che hanno fatto e continuano a fare di Dubai uno dei principali centri di riciclaggio internazionale di danaro sporco. Una macchia grave, che, solo in parte ultimamente, è stata rimossa con la cancellazione di questa nazione dalla “black list” dei Paesi Ocse, giudicati poco trasparenti e, quindi, ad elevato potenziale criminogeno.
Certo, ne è consapevole l’A., il comune visitatore, che approda a Dubai per un soggiorno turistico, difficilmente si rende conto di questi tratti negativi, abbagliato com’è dallo scintillio degli aspetti prima evocati e dalla constatazione sicuramente positiva dell’assenza della microcriminalità. Tutto ciò, naturalmente a condizione che non incappi, a causa di qualche comportamento fuori le righe, nelle maglie di una giustizia praticamente inesistente, provando, così, sulla propria pelle il significato dell’assenza di diritti civili e di garanzie giuridiche.
C’è, poi, una parte di questo libro che offre al lettore un’interessante ricostruzione storica, che parte dall’età medioevale per giungere ai giorni nostri e che mostra come il fenomeno dello sviluppo di Dubai, a differenza di quanto avvenuto negli altri paesi arabi, è solo in minima parte (5%) determinato dai proventi dell’estrazione del petrolio, attività iniziata anche in ritardo rispetto alle altre realtà.
L’analisi di Felice mostra che il successo di questo modello, in realtà, poggia sulle capacità politiche e imprenditoriali della famiglia di sceicchi, che la governano da alcune generazioni. Una capacità che si è estrinsecata nella costruzione di un solido capitalismo, attraendo in misura cospicua capitali e investimenti stranieri. Evocato un paragone significativo con Filadelfia, un’altra città simbolo, ma in questo caso di principi e libertà democratiche, l’A. si sofferma sulle caratteristiche di questo capitalismo dai tratti autoritari, sulla sua presunta efficienza, sull’apparente benessere individuale e collettivo che esso comporta, ma, ahimè, anche sul prezzo salato che esso richiede per la sua attuazione.
Appare, quindi, scontata nel capitolo conclusivo la condanna da parte dell’A. di questo modello consumistico di Dubai e del suo capitalismo autoritario, nonostante le sue innegabili aperture alle innovazioni tecnologiche. In esso, infatti, si scambia “il sentirsi contento con l’essere felice” privilegiando, in definitiva, l’appagamento momentaneo, sia alla soddisfazione complessiva della vita, sia alle relazioni umane nei loro aspetti sociali e politici.
Ecco perché, secondo Felice, più che di utopia per questa città sarebbe, dunque, appropriato parlare di distopia, anche se particolarmente pericolosa per la sfida cruciale implicitamente lanciata alle democrazie. Una sfida da cui queste potranno uscire vincitrici, a condizione di accettare “una visione dell’uomo composita, relazionale, libera ed anche imperfetta”. Una visione, che preveda, in ogni caso, un ampio perimetro di diritti, che vadano dalle libertà civili e politiche, ai diritti sociali, a quelli civili di seconda generazione e, infine, a quelli ambientali. Esattamente ciò di cui si lamenta l’assenza a Dubai!