Perché gli Stati Uniti si decisero a varare il Piano Marshall in Europa? Ecco le condizioni politiche ed economiche che lo resero possibile, e con quale strategia. E anche che cosa manca alla situazione attuale per poterlo riproporre
Se oggi a causa del Coronavirus siamo di fronte a una crisi economica paragonabile a quella causata dalla Seconda guerra mondiale, è utile ripensare a come sono usciti da quella crisi gli Stati europei: con l’aiuto degli Stati Uniti.
La resa della Germania di Hitler nel 1945 creò un vuoto di potere in Europa centrale e aprì il campo all’Unione Sovietica, così come, in Asia, la resa del Giappone lasciò un vuoto di potere aprendo all’espansione dell’influenza di Mosca. Nell’estate del 1945, alla conferenza di Potsdam, Stalin chiese un controllo della Germania condiviso con gli alleati e lo smantellamento industriale tedesco per accelerare la ricostruzione economica russa. Così vennero gettate le basi per il controllo politico sovietico in Europa centrale e orientale.
Gli Stati Uniti si resero conto che il crollo di Germania e Giappone avvantaggiava Mosca e minava la posizione americana, nacque dunque così la Dottrina Truman e nel 1947 furono stabiliti i principi della strategia di «contenimento» dell’Unione Sovietica. Il contenimento era collegato alla ripresa economica dell’Europa, che richiedeva un nuovo approccio politico.
L’Europa aveva un incredibile bisogno di materie prime, macchinari e beni durevoli di consumo dagli Stati Uniti, ma non aveva né le esportazioni né la valuta per finanziare i suoi acquisti. Inoltre, la perdita del raccolto del 1947 aveva obbligato l’Europa ad aumentare le importazioni di prodotti agricoli americani, il che peggiorò i problemi di bilancia dei pagamenti. Gli Stati Uniti provarono la strada dei prestiti temporanei a breve termine, ma assunsero proporzioni tali che la situazione divenne senza speranza.
Gli americani erano convinti che se la ripresa economica in Europa non fosse partita rapidamente, Mosca si sarebbe avvantaggiata del malessere sociale che ne sarebbe scaturito per ampliare la propria influenza sul continente. La ripresa della Germania era necessaria in questo senso. Fu così che la ripresa economica europea divenne parte integrante della strategia politica americana.
Lo European Recovery Program (ERP), noto come Piano Marshall, fu annunciato il 5 giugno 1947 dal generale George C. Marshall, segretario di Stato nell’amministrazione Truman. Si trattava di un piano economico per la ricostruzione dell’Europa distrutta dalla guerra. L’ Unione Sovietica rifiutò il piano Marshall e lanciò il Piano Molotov, fondando il 5 ottobre 1947 a Belgrado il COMINFORM per i paesi socialisti.
Diversamente da quanto era avvenuto dopo la Prima guerra mondiale, questa volta gli Stati Uniti proponevano di ricostruire la Germania e l’Europa, e non di affamarla. Il piano era, per Marshall, un baluardo “contro la fame, la povertà, la disperazione e il caos”. Ebbe i suoi oppositori al Congresso, specie tra chi sarebbe volentieri tornato all’antico isolazionismo come avvenuto proprio dopo la Prima guerra mondiale. Non a caso fu scelto il nome di Marshall, che era uno degli eroi di guerra: «Riuscite voi a immaginare – disse il presidente Truman – quali possibilità ha il piano di essere approvato, in un anno di elezioni, se venisse chiamato Truman e non Marshall?».
Gli obiettivi del piano americano di aiuto all’Europa erano pochi e strategici, e impressiona quanto siano potenzialmente utili anche oggi. 1) Modernizzazione delle infrastrutture. 2) Aumenti drastici della produzione totale (soprattutto nei settori-chiave acciaio ed energia). 3) Distribuzione più equilibrata dell’industria pesante per eliminare l’intensa concentrazione nella zona della Rhur. 4) Razionalizzazione della produzione agricola e in quello della trasformazione industriale. 5) Creazione di meccanismi per assicurare la stabilità monetaria e finanziaria. Il piano ammontava a circa 13 miliardi di dollari (circa 150 miliardi di dollari di oggi). La durata fu fissata in quattro anni. Era costituito da “grants” (donazioni) e “loans” (prestiti, ma a basso tasso di interesse).
Come ha sottolineato il Professor Giovanni Farese in una recente intervista: «Il piano “costrinse” gli europei a collaborare, perché i sedici paesi che ne furono beneficiari si ritrovarono insieme nell’OECE – Organizzazione Europea per la Cooperazione Economica (l’attuale OCSE). Fu il primo passo verso l’integrazione ed è emblematico che venga richiamato oggi, di fronte al rischio di disintegrazione del progetto europeo. Il problema è che il piano era reso possibile da precondizioni che oggi sono assenti.
La prima: la leadership indiscussa degli Stati Uniti. Oggi, di fronte al relativo declino della potenza americana, ci rendiamo meglio conto di quanto il progetto europeo sia stato dipendente dal sostegno degli Stati Uniti (incluso l’ombrello della NATO). Chi dunque dovrebbe oggi farsi carico del piano, almeno in via prioritaria? La Germania forse?
La seconda: tre anni prima dell’annuncio del piano, nel 1944, erano state gettate le basi, a Bretton Woods, per la cooperazione economica e monetaria internazionale. Oggi siamo immersi in una tregua commerciale e valutaria; e il richiamo a una “nuova Bretton Woods”, per quanto opportuno, non tiene conto dello stato delle relazioni internazionali, che è pessimo.
La terza: il piano Marshall e Bretton Woods avevano alle spalle i quindici anni di “semina” intellettuale del New Deal di Roosevelt e del pensiero di Keynes. Oggi noi possiamo solo auspicare – come ha fatto anche Mario Draghi recentemente – un cambio di mentalità (mindset).
La fonte principale dell’articolo è il volume: Herman Van Der Wee: “L’economia mondiale tra crisi e benessere (1945-1980)”, Hoepli.