L’enorme quantità di risorse da impiegare che viene dall’Europa dà ai leader partitici l’occasione imperdibile di mettere le lancette dell’orologio indietro a quando altri leader partitici controllavano gli interessi e prendevano effettivamente decisioni, pur accompagnate da clientelismo e corruzione. Aspirazione possibile?
Nella nuova situazione politica, creata dalla pandemia e caratterizzata da diverse e rilevanti novità (maggiore controllo pubblico dei cittadini, cambiamento del ruolo dello stato in economia, più alto debito e possibile inflazione, aumento dell’attenzione verso settori del welfare, quali sanità e assistenza sociale, necessari ma difficili da tenere nel tempo per i condizionamenti e la bassa crescita propri di un’economia post-occidentale), che cosa vogliono i partiti?
La risposta più immediata è: vorrebbero approfittare di queste circostanze assolutamente straordinarie per mettere le lancette indietro nel tempo. Ma che cosa vuol dire? E sarebbe concretamente possibile?
Oggi, quando diciamo ‘partiti’ indichiamo una istituzione politica già descritta da Downs nel 1957: un gruppo di donne e uomini che propongono politiche per vincere le elezioni e cercano una carica “per godere del reddito, del prestigio e del potere che accompagnano la gestione dell’apparato di governo”.
I partiti di integrazione di massa, tradizionalmente socialisti o socialdemocratici in alcuni paesi, caratterizzati da un’organizzazione e un’ideologia robuste e radicate, non esistono più ormai da decenni. Ciò significa che oggi, piuttosto che di partiti, dovremmo parlare di leader partitici, i quali nel migliore dei casi sono capaci di dar vita a un seguito di eletti ed elettori e, al tempo stesso, di cogliere le opportunità date dalla situazione contingente.
Soprattutto dagli anni Ottanta del secolo scorso in poi, in diversi paesi europei quei leader partitici hanno, però, perduto in notevole grado il controllo sulle politiche più importanti, quelle economiche. In realtà, la loro effettiva capacità decisionale, già limitata dal contesto istituzionale democratico, è stata largamente condizionata dalla necessità di politiche che diminuissero il ruolo pubblico in economia per cercare di far quadrare i bilanci, o almeno renderli sostenibili, e dalle decisioni prese a Bruxelles dal Consiglio Europeo e dalla Commissione, specie dopo l’entrata nell’euro.
Diversi fattori, ma soprattutto il diffuso scontento per le crisi economiche, che si sono susseguite negli anni fino alla Grande Recessione del 2008-14, hanno contribuito a un’ampia delegittimazione dei partiti, al punto che la stessa parola è stata sostituita da altri termini, come ‘movimento’, per dare il senso di una maggiore vicinanza ai cittadini.
In breve, nelle nostre democrazie, ormai si è consumato il divorzio tra il momento elettorale con grandi promesse e impegni ultimi e il successivo momento delle decisioni politiche in cui si devono fare i conti con conflitti tra posizioni diverse e limitazioni di risorse nel contesto dell’Unione europea.
Specie con la Grande Recessione, le proteste, anche antieuropeiste, e le proposte di soluzioni salvifiche sono state la risposta di nuovi attori partitici alla perdita di salienza dell’istituzione partito, e un modo di superare, anche solo illusoriamente, quel divorzio per riconciliare di nuovo cittadini e istituzioni politiche.
Ora l’enorme quantità di risorse da impiegare che viene proprio dall’Europa per superare la pandemia dà ai leader partitici un’opportunità impensabile fino a un anno fa di battere quei populisti non ancora integratisi e di superare il divorzio tra posizioni di governo e politiche effettivamente decise e realizzate.
Un’occasione storica e imperdibile di mettere, appunto, le lancette dell’orologio indietro a quando altri leader partitici controllavano gli interessi e prendevano effettivamente decisioni, pur accompagnate da clientelismo e corruzione.
In questa situazione possiamo davvero affermare che la crisi di governo era incomprensibile? Sì, per i cittadini, ma non per i leader e l’intera classe politica, che su chi deciderà dove distribuire le risorse sta giocando una partita vitale.
Eppure, proprio in questa fase esisterebbe un’altra via di uscita, non in conflitto con la precedente. Come si è fatto negli anni Novanta, quando un gruppo di leader era riuscito a proporre l’entrata nell’euro come un obiettivo concreto, unificante e motivante per una parte consistente di cittadini-elettori, oggi si dovrebbe porre l’uscita dalla crisi economica e la ricostruzione del paese come l’obiettivo unificante che leader al governo e all’opposizione dovrebbero perseguire, coinvolgendo anche i cittadini in un impegno collettivo e inclusivo. Come ci ricordava Biden nel suo discorso di insediamento del 20 gennaio, di fronte a sfide così impegnative e difficili, “è tempo di essere coraggiosi”.