Come sta cambiando, con la pandemia, il rapporto tra politica e mondo economico? Sia per l’impiego dei futuri fondi del NGEU che per le iniziative di emergenza a favore delle categorie produttive o di tutela sociale è il governo, con i leader che lo sostengono, a fare da protagonista. Senza un’interlocuzione diretta e formale con le categorie interessate. Sicuri che sia il modo giusto per realizzare al meglio l’interesse pubblico?
Se si ammette che l’impatto della pandemia nel corso del 2020 è stato assai forte, allora occorre capire meglio in che ambiti è avvenuto. Dal punto di vista politico, sembra difficile non vedere i cambiamenti verso un assetto caratterizzato da un maggiore controllo pubblico sui cittadini, da un cambiamento del ruolo dello stato in economia, a costo di più alto debito e probabile inflazione, da un aumento dell’attenzione verso settori specifici del welfare, quali sanità e assistenza sociale, necessari ma anche difficili da tenere nel tempo per i limiti alla crescita di un’economia post-occidentale e per i problemi ovvi di sostenibilità del debito.
In questo quadro una domanda rilevante è: se e come stanno cambiando i rapporti con il mondo bancario privato, quello imprenditoriale, le imprese commerciali che non sono riuscite a riciclarsi attraverso l’e-commerce, le imprese che fanno parte della grande industria motrice costituita dal turismo, oltre a tutte le altre imprese maggiormente colpite dalla pandemia. Anche questo è un aspetto essenziale che definisce e caratterizza una democrazia.
Accettando tutti i limiti della semplificazione, nei due decenni successivi alla Seconda guerra mondiale, la ricostruzione e la crescita economica avvengono sulla base di un accordo tra la Democrazia Cristiana e la Confindustria in cui i leader partitici hanno una posizione dominante e i sindacati sono deboli e, a parte la CISL, in grande misura marginali. Dopo gli anni del cosiddetto boom economico e la conseguente mobilitazione operaia, i sindacati riescono a diventare attori protagonisti del conflitto politico e alla metà degli anni Settanta, in un quadro di instabilità politica e indebolimento partitico, un qualche accordo viene sigillato. Questa volta i protagonisti sono esponenti delle parti sociali, Agnelli per la Confindustria e Lama per la CGIL.
La svolta avviene negli anni Ottanta, quando l’evoluzione dell’integrazione europea comincia a spostare il centro delle decisioni economiche a Bruxelles; i problemi dell’alto debito, creato dalla ricerca partitica del consenso, si cominciamo a sentire e il settore pubblico si restringe anche con banche in cui i privati cominciano ad essere più rilevanti. I processi di liberalizzazione e ritiro della politica dall’economia continuano negli anni successivi.
Negli anni Novanta si assiste al miracolo di un terremoto politico accompagnato da stabilità economica. Infatti, da una parte, tutti i partiti e leader tradizionali protagonisti dei decenni precedenti scompaiono ma, dall’altra, i diversi governi di quel decennio, da Ciampi, a Prodi, a D’Alema, riescono a concludere accordi neocorporativi in cui Confindustria, sindacati e diverse altre associazioni di categoria (nell’ultimo accordo concluso da D’Alema intorno al tavolo ci sono rappresentanti di 32 associazioni di interesse). Peraltro, proprio questi accordi pongono le premesse per l’entrata nell’euro.
Nei primi due decenni del nuovo secolo, compresi gli anni della Grande Recessione (2008-14), gli interessi presenti informalmente attraverso le loro attività di lobbying sono virtualmente scomparsi come protagonisti formali della politica economica del paese, che si decide in gran parte a Bruxelles. Le dichiarazioni dei protagonisti imprenditoriali e sindacali dei diversi settori contano come opinioni rilevanti ma che possono essere ignorate. In breve, il dialogo sociale è il risultato migliore che si possa pretendere.
E ora nella democrazia post-pandemica? Innanzi tutto, un paradosso (parziale): le decisioni di costituire il Next Generation EU e gli altri piani di recupero, con l’indicazione dei settori e obiettivi da raggiungere, sono un passo importante nel rafforzare l’integrazione europea. Ma la progettazione nel dettaglio e soprattutto l’impiego effettivo di quei fondi non possono che avvenire a livello nazionale, e questo significa maggiore potere dei leader politici nazionali. Inoltre, la forte attivazione dei diversi micro-interessi, anche attraverso il lobbying – molto efficace come si è visto con la finanziaria appena approvata – è conseguentemente incentivata. Terzo, ai macro-interessi, quelli che riguardano intere categorie e toccano le forme di protezione sociale, il salario minimo, il blocco dei licenziamenti, i ristori, ci pensano direttamente il governo e i suoi leader che lo sostengono senza un’interlocuzione diretta e formale con le categorie interessate. Di nuovo, un ulteriore rafforzamento dei leader politici. Che fare? Come uscirne realizzando al meglio l’interesse pubblico?
Se consideriamo le dimensioni medie e piccole della grande maggioranza delle nostre imprese nei diversi settori industriali, commerciali e altri, le diverse associazioni di categoria – dalla Confindustria, Confcommercio, Confartigianato ai tre sindacati nazionali, alle numerose altre organizzazioni – avrebbero un’occasione rara di diventare protagoniste della ripresa e interlocutori del governo, limitando anche il micro-lobbying e giungendo a risultati concordati alla luce del sole e, in quanto tali, più trasparenti per l’opinione pubblica. Nuovi accordi tra governo e le diverse associazioni potrebbero anche raggiungere l’obiettivo di tenere sotto controllo il debito, consentendone la sostenibilità. Si potrebbe così compiere di nuovo il miracolo degli anni Novanta.
Sembra, però, una strada poco probabile nella situazione attuale di polarizzazione politica, frammentazione sociale, con leader e partiti deboli e tante e diverse organizzazioni, anch’esse talvolta distanti dai loro membri, oltretutto in un quadro di divisione territoriale.
Le soluzioni alternative sono solo due, anch’esse non semplici da realizzare. La prima sarebbe un nuovo ruolo da parte dell’opposizione parlamentare, costruttivo rispetto alle politiche ma anche di controllo costante sul governo. La seconda soluzione sarebbe puntare sul controllo politico svolto dai media, almeno in termini di fact-checking e responsabilità, in sostituzione o in aggiunta a quello dell’opposizione. Che cosa avverrà in concreto in una partita che dà tutti gli assi al governo, lo vedremo solo vivendolo.