Intervista ad Alberto Pera, presidente dell'Associazione antitrust italiana
Sotto la direzione di Teresa Ribera la Direzione antitrust di Bruxelles lavora a modernizzare le regole su procedure, valutazione degli abusi e comunicazione sulle concentrazioni. Quali sono i vantaggi e i rischi? Servirà ad aprire la strada alla creazione di campioni europei? Limiterà il peso delle antitrust nazionali? Le risposte di un esperto
Big dell’high tech come Meta e Apple, delle consegne a domicilio come Glovo e Delivery Hero, della finanza come Visa e Mastercard, marchi del lusso come Gucci, Chloé e Loewe, ultimamente il gigante Google, multato per 3 miliardi di euro, sono alcuni dei grandi nomi entrati nel mirino dell’Antitrust europeo, indagati e accusati per pratiche anticoncorrenziali di vario tipo e abuso di posizione dominante.
Proprio guardando a queste medaglie, frutto di indagini avviate sotto la precedente gestione, alcuni “antitrust watchers” hanno accusato il nuovo commissario, la socialista spagnola Teresa Ribera, di metterci troppo tempo a capire come guidare la Rolls Royce della Commissione – così la Direzione concorrenza viene chiamata a Bruxelles. E da lì iniziare a esercitare la parte che tutti si aspettano che eserciti, quella da numero due della Commissione, detentrice dei poteri più forti dopo quelli della von der Leyen.
L’apparente surplace cela però un cantiere aperto che potrebbe cambiare molti degli attuali connotati dell’Antitrust: si è chiusa solo da poco la consultazione avviata sulla riforma delle sue regole procedurali, consultazione che segue quelle che hanno coinvolto le norme stesse della concorrenza, nell’idea di una revisione a tutto campo dell’ordinamento dell’Unione sulla materia.
Ma la Rolls Royce della Commissione ha davvero bisogno di un intervento di restyling? E in che direzione?
Ne parliamo in questa intervista con Alberto Pera, economista, avvocato, esperto riconosciuto in materia di concorrenza (nella foto).
«A me non sembra che la Direzione Generale in quanto tale abbia bisogno di cambiamenti. Certo è in un momento di transizione, visto che l’ottimo Direttore Generale (Olivier Guersent) è andato in pensione, non è ancora stato sostituito e il ruolo del DG è estremamente importante anche in termini di policy. Oggi la discussione in corso con le consultazioni riguarda soprattutto tre fronti dell’attività antitrust: alcuni importanti aspetti procedurali – quelli contenuti nel Reg. 1/2003 -, le linee guida sugli abusi, che rendono il controllo più stringente (qualcuno direbbe più formalistico), e infine la comunicazione sulle concentrazioni, che cerca di modificare l’angolo visuale del controllo, allungando il contesto temporale di analisi, introducendo considerazioni dinamiche e relative all’innovazione, e anche altri aspetti di carattere più dubbio, come l’effetto sull’occupazione o la sostenibilità».
L’obiettivo è modernizzare. Le proposte vanno in questa direzione? Lei come le valuta complessivamente?
«Per quel che riguarda le nuove regole procedurali, vent’anni dopo l’introduzione del Regolamento 1/2003, l’idea è che nel mondo digitale le indagini possono e forse debbono essere condotte in maniera diversa: la modalità in cui sono detenute e conservate le informazioni – su supporti digitali – sono cambiate e la tecnologia offre nuove possibilità di svolgere le indagini, per esempio da remoto. C’è del vero, ma l’impostazione proposta pone problemi non banali per quel che riguarda l’accesso a documenti non pertinenti e quindi i diritti di difesa delle imprese, che devono essere comunque salvaguardati, e rischia di imporre costi eccessivi alle imprese per essere in linea con quanto richiesto dalle proposte della Commissione. Quanto alla proposta di linee guida sugli abusi, identificano condotte che sono presuntivamente vietate, sulla base della prassi valutativa della Corte di Giustizia; rendono senz’altro più chiaro il quadro e dovrebbero accelerare i procedimenti: rischiano però di irrigidire le valutazioni di condotte che possono avere positive finalità di efficienza; quanto infine alle concentrazioni, mi sembra certamente opportuno che il quadro di analisi consenta una più efficace valutazione di fenomeni intrinseci alle concentrazioni, come l’innovazione o l’efficienza. Sono più scettico rispetto alla considerazione di fenomeni che non riguardano l’impatto sui mercati, come la sostenibilità o l’occupazione».
Tra gli obiettivi che le nuove regole si propongono c’è anche quello di contrastare il peso delle antitrust nazionali e aumentare quello centrale europeo?
«Quanto alle antitrust nazionali, il tema non è l’azione delle Autorità nell’applicazione della normativa europea o comunque allineata, i cui interventi sono sempre coordinati, ma evitare divergenze tra norme nazionali ed europee soprattutto nel campo delle pratiche unilaterali (cioè gli abusi), per le quali il Reg. 1/2003 consente un trattamento e normative più restrittive a livello nazionale. Questo può condurre a una frammentazione di mercati che dovrebbero invece avere dimensione supernazionale, il che è indesiderabile, specie in questo momento in cui si cerca invece di creare mercati quanto più possibile ampi».
Può imporre spezzatini, può impedire grandi deal. L’Antitrust di Bruxelles è spesso visto come un covo di ayatollah troppo potenti. Viene da lì il maggiore ostacolo alla nascita dei campioni europei?
«Spezzatini non ne ho visto molti. Certo, attraverso il controllo delle concentrazioni l’Antitrust di Bruxelles può vietare operazioni, o sottoporre la loro attuazione a condizioni, anche cessioni di parte di azienda. Occorre considerare che le valutazioni al riguardo sono prese sulla base della stima degli effetti dell’operazione sul mercato rilevante del prodotto e geografico, in un orizzonte temporale relativamente breve. Ma un orizzonte troppo breve impedisce di cogliere gli effetti positivi sull’innovazione e sull’efficienza; come un mercato troppo limitato impedisce di cogliere le sfide concorrenziali esistenti. Di qui i richiami a una maggiore attenzione».
Alla luce del Rapporto Draghi, che sollecita l’Europa a darsi imprese più grandi e competitive, l’Antitrust dovrebbe allentare le sue maglie?
«Quanto ai campioni europei, francamente non vedo un’incompatibilità con il controllo delle concentrazioni, purché sia chiaro cosa intendiamo con il termine: Draghi pensa a imprese europee in grado di competere sui mercati mondiali, non imprese dominanti sui mercati europei. Il punto è una chiara identificazione di dove si svolge la concorrenza, e dove è eventualmente ristretta. Se l’obiettivo è di avere imprese europee competitive in mercati di dimensione mondiale, il controllo delle concentrazioni non è un ostacolo purché si definisca correttamente il mercato. Il punto è se il mercato è effettivamente mondiale, o se si rischia di favorire la creazione di imprese dominanti nei mercati europei. Poi c’è l’altra questione centrale: se i mercati siano effettivamente europei e non invece frammentati a livello nazionale».
C’è un modo per neutralizzare questi rischi?
«Mi sembra che sia necessario intervenire su due piani. In primo luogo, perseguendo il suggerimento del rapporto Draghi di allargare la dimensione dei mercati a livello europeo: e questo, soprattutto nei servizi ma non solo, attraverso l’eliminazione delle barriere prevalentemente normative e regolamentari che frammentano il mercato europeo. Questo amplierebbe lo spazio di confronto concorrenziale e lo trasferirebbe dal livello nazionale a quello europeo, facendo sì che imprese più grandi non debbano necessariamente limitare la concorrenza. Poi bisogna adeguare i criteri di valutazione delle concentrazioni al nuovo contesto, in maniera che tengano conto del potenziale di innovazione e modernizzazione delle operazioni; ma questo è il problema minore: il principale è quello di far raggiungere dimensioni europee ai mercati».
Il mantra di fondo dell’azione dell’Antitrust è sempre stato quello della tutela del consumatore. È un obiettivo obsoleto? O va contemperato con altri criteri di giudizio?
«In realtà l’obiettivo primario della normativa antitrust dovrebbe essere la tutela del processo concorrenziale, che è motore di efficienza e di innovazione, e per questa via accresce il benessere dell’economia e quindi dei consumatori. Si noti: non la tutela del consumatore, che è cosa alquanto diversa, anche se in certi casi complementare e magari più popolare. Questo originario obiettivo non mi sembra affatto obsoleto. Si tratta però di declinarlo nel contesto economico rilevante, e questo può presentare indubbie complessità».
C’è qualche caso in cui, a suo giudizio, la decisione avrebbe potuto essere diversa?
«Ce ne sono naturalmente vari. Non, a mio giudizio, Siemens-Alstom, in cui si rischiava di creare un campione europeo dominante in un mercato europeo che era effettivamente il mercato in cui le imprese competevano. Invece, secondo me, doveva essere diversa la decisione che ha vietato la concentrazione Euronext-Deutche Bourse: un via libera avrebbe consentito la creazione di una grande infrastruttura di mercato e dei servizi post-trading, mercati e settori in cui sono ed erano presenti fortissimi players sia europei che soprattutto statunitensi. Infrastruttura di cui si sente fortissima la mancanza quando si parla di Capital Market Union».
Nei confronti degli Usa e dei big tech americani l’Antitrust di Bruxelles si è mossa con severità nel far rispettare le regole europee: queste ultime però vengono incluse nel perimetro di qualsiasi deal, secondo la visione dell’amministrazione Trump. Un approccio un po’ più mercatile sarebbe utile anche in Europa?
«I big tech americani non sono solo americani, ma sono le imprese largamente dominanti nell’ecosistema digitale. E di questa dominanza approfittano. Le regole europee, in realtà, cercano di limitare questo esercizio di dominanza, in modo da consentire lo sviluppo di nuovi players competitivi almeno in alcune aree dell’ecosistema, sperando poi che crescendo possano magari rappresentare delle alternative. Non mi stupisce che l’amministrazione Trump cerchi di limitare l’azione europea: ma non credo assolutamente che sia nell’interesse della concorrenza, oltreché europeo, cedere alle pressioni».