Dal Cnel il primo Rapporto che analizza le cause della scarsa produttività del paese e ne studia i possibili rimedi, da offrire alle scelte di politica nazionale e di quella europea
«Abbiamo un terziario che cresce, altrettanto fa l’occupazione, ma è molto “pizza e amore”: cioè turismo, accoglienza, cibo. Ma non è questo che fa aumentare la produttività. È questa la trappola in cui siamo inchiodati». Guidando il dibattito durante la presentazione del primo Rapporto del Comitato nazionale produttività istituito presso il Cnel, il presidente Renato Brunetta mette subito il dito sulla piaga del modello Italia: terziario povero, frammentazione delle imprese, scarsi investimenti in tecnologia avanzata, bassa intensità di capitale.
Un modello, però, che non ci impedisce di essere campioni di export, grazie a un manifatturiero “che produce cose difficili” e di grande qualità, grazie alla creatività dei prodotti, grazie anche a quel “terziario atomizzato” di professionisti e di imprese individuali che danno servizi di alto valore, che però le statistiche spesso non intercettano.
Il rebus della scarsa produttività italiana, male annoso, è in questi paradossi. Ma è una fotografia che può cambiare, che deve cambiare, visto che ormai il tema della produttività, e quindi della competitività, è dibattuto a livello europeo, è un problema del sistema continentale, che è stabilmente surclassato dagli Usa. Una situazione di cui i rapporti Draghi e Letta hanno già dato piena consapevolezza.
È per questo che questo primo Rapporto si interroga sul come sbloccare il circolo vizioso che ci fa restare, in produttività, sempre ultimi tra i paesi europei. E con la prospettiva di vedere la prossima fine del PNRR, nel 2026, senza aver scardinato la trappola.
A cominciare dalla scarsa consapevolezza dello stesso mondo delle imprese: da una rilevazione dell’Istat del 2024, il 33,5% delle imprese dichiara di non voler fare nessun investimento tra il 2025 e il 2026, mentre addirittura il 41,8 intende investire in social media ma solo il 19,5 in intelligenza artificiale.
Imprese che hanno creato occupazione, è vero, ma puntando appunto sul basso costo del lavoro piuttosto che sull’investimento in nuove tecnologie, in R&S, in crescita di competenze. E non c’è immagine più eloquente della mappa Istat della produttività, con sporadiche zone di vitalità, in rosso, e un mare di blu che racconta quanta strada c’è da fare.
«Siamo un paese a bassi salari reali (che sono ancora sotto il livello del 2021), e sappiamo che tendenzialmente la qualificazione della forza lavoro è bassa: sono queste due cose che determinano scarsi investimenti in capitale intangibile», ha detto Carlo Altomonte, coordinatore del Rapporto. Le conseguenze? I bassi salari determinano una minore domanda di competenze che a sua volta crea un minore incentivo alla formazione di chi deve cercare lavoro (le materie STEM sono impegnative), il ristagno della bassa qualificazione e dunque della bassa produttività, che giustifica di nuovo i bassi salari, in un circolo vizioso.
Come rompere lo schema? Altomonte consiglia di partire dalla qualificazione dei lavoratori, dalle competenze e dagli incentivi per far sì che le imprese possano assumere persone con quelle competenze.
Di qui le sue tre proposte: potenziare il credito d’imposta in R&S per investimenti in tecnologie digitali e capitale intangibile umano in formazione continua; creare un credito di imposta in Formazione 4.0 nei settori ad alta produttività; rendere operativa la filiera formativa tecnologico-professionale potenziando gli ITS e il raccordo con i corsi STEM. Naturalmente il sistema delle imprese (capacità di internazionalizzarsi e di crescere) e la macchina pubblica (efficienza e coordinamento) dovranno fare la loro parte.
L’analisi c’è, resta da vedere come verrà utilizzata e tradotta in termini di policy. Dove concentrare gli sforzi, come indirizzare le risorse, come scegliere il focus su cui fare leva? Un suggerimento-provocazione lo offre Brunetta nelle conclusioni: «Se è vero che il nostro export è fatto per metà da 1300 imprese ad alta competitività, ha senso investire sulla crescita dei piccoli o piuttosto puntare sui big?». Senza dimenticare la necessità di una risposta europea: «Se riuscissimo ad abbandonare i patti di stabilità e puntare sulla domanda interna, con più investimenti, pubblici e privati», auspica Brunetta, forse il cammino fuori dalla stagnazione sarebbe più veloce.