Se la richiesta di riduzione dei tassi subito dopo l'elezione di Trump era facile da rifiutare per la FED, che anticipava la maggiore incertezza del quadro, ora il tempo di un taglio sembra essere giunto. In estate o subito dopo. Mentre Trump già cerca il successore di Powell
Sono mesi che l’esuberante, istrionico ed imprevedibile Presidente Trump non perde occasione per attaccare la Federal Reserve e, soprattutto, il suo Chairman, Jay Powell, reo di non aver accompagnato, sinora, i primi passi del nuovo corso delle politiche USA con una decisa sforbiciata dei tassi di interesse.
Normalmente, i banchieri centrali non amano le interferenze eccessive della politica nel loro operato, pur dovendo ovviamente dialogare con le istituzioni ed accettare un confronto, anche critico, in relazione alla loro condotta. È ben noto che esistono diverse ragioni a sostegno di un elevato grado di indipendenza delle banche centrali dalla politica, motivate sia da considerazioni di political economy, di eccessiva e pericolosa dipendenza delle scelte di politica economica dai cicli “politici”, che dalla vasta evidenza empirica documentata nel secolo scorso, anche grazie al contributo di molti studiosi italiani, in merito alle migliori performances, in termini di stabilità dei prezzi, di banche centrali indipendenti, cui non si accompagnano peggiori risultati in termini di crescita economica e indicatori di funzionamento del mercato del lavoro.
Infine, anche per la natura molto “tecnica” delle decisioni che le banche centrali sono chiamate a prendere, supportate da modelli analitici ed econometrici sofisticati e uso di notevoli quantità di dati a diversa frequenza, sembra opportuno limitare un eccessivo intervento “politico” in tema di scelte di controllo monetario, che devono garantire un importante “bene pubblico” come quello della stabilità dei prezzi.
Queste considerazioni hanno portato ad una larga accettazione, da ormai almeno 3 decadi, dell’opportunità di assegnare la gestione della politica monetaria ad una banca centrale indipendente, che spieghi tuttavia in modo trasparente le proprie decisioni al pubblico e si dimostri pienamente responsabile delle proprie azioni. D’altronde, in particolare in periodi caratterizzati dal riaffermarsi di tendenze populiste, non è difficile comprenderne il motivo, sia nel dibattito pubblico che nella pratica del central banking, il tema dell’indipendenza politica delle banche e dei banchieri centrali ritorna prepotentemente alla ribalta.
Ne sono ottime testimonianze episodi che hanno riguardato sia la Fed che la BCE a seguito delle crisi finanziarie internazionali dei mutui subprime e dei debiti sovrani. Nel 2008, anche uno dei più rispettati economisti monetari degli ultimi 50 anni, Ben Bernanke, affermato accademico ed allora Chairman della Federal Reserve, apparve troppo vicino al potente segretario del Tesoro statunitense, Henry Paulson. E quando si trattò di gestire il passaggio di consegne tra Trichet e Draghi alla guida della BCE, furono evidenti le enormi pressioni esercitate dai Governi italiano e francese (Berlusconi e Sarkozy) affinché un membro italiano del Comitato Esecutivo (eletto per servire un mandato di 8 anni e non soggetto ad alcuna clausola di decadenza), Lorenzo Bini Smaghi, si dimettesse per lasciar spazio alla nomina di un nuovo membro di nazionalità francese.
Non deve quindi sorprendere troppo che il Presidente Trump, esternatore facile e volubile, preoccupato di una congiuntura economica in peggioramento negli USA, in buona parte dovuta ai suoi stessi proclami e alle minacce in tema di politiche protezionistiche e anti migratorie, ma anche ad un contesto globale reso più incerto dai conflitti in essere e dalle tensioni innescate dal ritorno a una maggiore frammentazione del sistema produttivo e distributivo dopo la pandemia, abbia alzato la voce e usato toni decisamente poco gentili. Ha contestato con veemenza tutte le decisioni della Fed di mantenere invariati i tassi di interesse dallo scorso autunno, ed apostrofato il suo vertice con appellativi quali “stupido”, “idiota”, “incompetente”. Al di là dei toni poco educati, irrispettosi ed immeritati, vale la pena di affrontare la sostanza delle critiche mosse e valutarle anche con riferimento al timing in cui sono state pronunciate.
Mi sembra di poter affermare che la “richiesta” di riduzione dei tassi effettuata subito dopo l’elezione, fosse obiettivamente facile da rifiutare per la FED, che anticipava correttamente la maggiore incertezza e i possibili impatti negativi della stessa, in termini di mercato del lavoro, dinamiche salariali e soprattutto di aumento delle aspettative di inflazione, determinati dagli annunci su dazi e irrigidimento delle politiche migratorie.
A distanza di ormai 8 mesi, tuttavia, nonostante la perdurante imprevedibilità del nuovo Presidente e dei suoi discorsi, il tasso di inflazione, pur mantenendosi sopra l’obiettivo della banca centrale, non ha dato segnali di invertire la tendenza al suo graduale raggiungimento. Le aspettative di inflazione mantengono una volatilità preoccupante, in parte, come già sottolineato, autoindotta dalle esternazioni di Trump, ma a maggio si collocavano ad un livello compatibile con una ulteriore riduzione del tasso di inflazione.
Sul fronte dell’economia reale, gli USA sono in rallentamento, nonostante la resilienza a livelli molto bassi del tasso di disoccupazione, ma crescono ancora a tassi più elevati della media dell’Eurozona e degli altri maggiori paesi avanzati. L’economia beneficerebbe di una riduzione del costo del denaro, che potrebbe evitare il rischio (misurato) di una recessione nei prossimi trimestri. E soprattutto contenere gli oneri per servire un debito pubblico in forte crescita anche nelle previsioni sul prossimo esercizio fiscale, che mantengono il disavanzo federale intorno al 6% del PIL.
In definitiva, dunque, il tempo di un taglio dei tassi da parte della FED sembra essere giunto. In assenza di nuovi annunci su ulteriori inasprimenti tariffari, che potrebbero impattare negativamente sulle aspettative di inflazione, e di ulteriori annunci riguardo future politiche fiscali espansive, la FED ridurrà i tassi di interesse in estate o subito dopo. L’unico che potrebbe ritardare ulteriormente una decisione che forse poteva già esser presa a giugno, è proprio l’esuberante inquilino della Casa Bianca, già al lavoro per trovare il sostituto di Jay Powell tra un anno.