La Corte costituzionale non ha chiuso la porta al regionalismo differenziato, ma ha tracciato una stretta cornice entro cui muoversi: la differenziazione dovrà essere compatibile con l’efficienza della spesa pubblica e non potrà aumentare i costi complessivi per lo Stato. Al contrario, dovrà favorire un uso migliore delle risorse*
L’ambizione di riscrivere l’autonomia territoriale italiana si è scontrata con la realtà costituzionale e con i limiti della politica. La sentenza n. 192/2024 della Corte costituzionale ha decostruito ampie parti della legge n. 86/2024 – la cornice normativa voluta dal governo per l’attuazione dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione – lasciando il progetto del regionalismo differenziato in un limbo giuridico. Ma se i promotori della riforma escono ridimensionati, non per questo la prospettiva di autonomie differenziate è archiviata: a patto che si torni a ragionare con metodo e cautela.
Il dibattito sulla cosiddetta “secessione dei ricchi” si è giocato sin qui su due piani intrecciati: l’assetto costituzionale e la sostenibilità finanziaria. Il giudice delle leggi è intervenuto su entrambi, stabilendo principi destinati a segnare i prossimi passi. Primo fra tutti: l’autonomia differenziata non può diventare una scorciatoia per bypassare il principio di solidarietà tra territori. Secondo: la devoluzione di competenze e risorse dovrà seguire logiche selettive, funzione per funzione, e mai su larga scala. Terzo: in ciascuno dei passaggi determinanti, la politica deve sia assumersi le proprie responsabilità, anzitutto in Parlamento, sia basarsi su dati e valutazioni trasparenti e solide. Senza strumenti metodologici robusti e condivisi, la differenziazione rischia di restare una velleità destinata a infrangersi contro i principi costituzionali e i vincoli finanziari. Il verdetto di Palazzo della Consulta è, in fondo, una grande lezione di metodo.
Alla radice della sentenza c’è un ragionamento semplice quanto dirompente. Ogni Regione, ha stabilito la Corte, ha diritto di impugnare non solo le leggi generali sul regionalismo differenziato, ma anche quelle che concedono autonomie ad altre Regioni, quando sia in gioco la parità tra enti. Una par condicio derivante dagli articoli 5 e 114 della Carta. È una premessa che carica di incertezza ogni futuro accordo di differenziazione e che conferma quanto la materia sia destinata a continui contenziosi se non affrontata con prudenza.
Sul piano sostanziale, i giudici costituzionali hanno chiarito che la differenziazione dovrà riguardare singole funzioni, non intere materie. Per ciascuna funzione andrà svolta un’istruttoria rigorosa, basata su criteri di efficacia, efficienza, equità e responsabilità. E occorrerà documentare, con analisi trasparenti e validate, che la Regione interessata sia in grado di gestirla meglio dello Stato. È qui che la collaborazione tra giuristi ed economisti diventa essenziale.
Un altro snodo decisivo è quello dei Livelli Essenziali delle Prestazioni (LEP). Nessuna funzione che impatti su diritti civili e sociali potrà essere trasferita senza che prima lo Stato abbia fissato uno standard minimo di servizi valido su tutto il territorio nazionale e abbia garantito le risorse per finanziarlo. Non si tratta solo di un’esigenza costituzionale ma di una condizione di sostenibilità economica, che rende evidente come il regionalismo differenziato non possa prescindere da un consolidamento preliminare del sistema di finanza pubblica territoriale. I parametri dovranno considerare effetti di scala, esternalità, spill-over, barriere alla concorrenza e impatti sulla coesione nazionale. Un’analisi economica superficiale o parziale rischierebbe non solo di compromettere i servizi ai cittadini, ma anche di innescare contenziosi costituzionali infiniti.
In questo senso, la sentenza rilancia l’urgenza di completare l’attuazione dell’articolo 119 della Costituzione – la riforma del federalismo fiscale del 2009 – rimasta finora incompiuta. Senza un funzionante sistema di perequazione tra territori e senza una definizione chiara dei fabbisogni standard, ogni ipotesi di autonomia rafforzata rischia di creare più squilibri che vantaggi. Anche per questo la Corte costituzionale ha bocciato i meccanismi di adeguamento annuale delle compartecipazioni fiscali previsti dalla legge n. 86, giudicati troppo flessibili e poco trasparenti. Le Regioni dovranno dimostrare capacità di gestire le risorse assegnate senza contare su paracadute finanziari automatici.
Il messaggio è chiaro: la differenziazione dovrà essere compatibile con l’efficienza della spesa pubblica e non potrà aumentare i costi complessivi per lo Stato. Al contrario, dovrà – nelle intenzioni – favorire un uso migliore delle risorse. Ma per riuscirci, il percorso dovrà essere graduale, pragmatico e fondato su dati solidi. Niente più trasferimenti basati sulla spesa storica; solo calcoli fondati su costi standard depurati da inefficienze.
Alla fine, la Corte costituzionale non ha chiuso la porta al regionalismo differenziato, ma ha tracciato una stretta cornice entro cui muoversi. Le forze politiche e le Regioni più ambiziose, come Veneto e Lombardia, che hanno spinto il processo negli anni passati, dovranno ora misurarsi con vincoli stringenti, sia giuridici sia finanziari.
Il compito della politica, oggi, è rimettere ordine: completare la riforma del federalismo fiscale, definire con chiarezza i LEP, rafforzare i meccanismi di perequazione prima di riaprire il dossier delle intese differenziate. La tentazione di forzare la mano ha già mostrato i suoi limiti. È il momento, per la politica, di alzare l’asticella della qualità delle proprie decisioni. Solo così il regionalismo differenziato potrà trasformarsi da promessa divisiva a opportunità ben governata. Ma è un futuro riservato a chi saprà muoversi con metodo, trasparenza e responsabilità.
* La versione integrale di questo articolo è pubblicata sul sul n°1/2025 di Economia Italiana