I manager bancari si dicono convinti di conseguire nell’intero 2024 un utile superiore a quello già abbondante dell’anno precedente. Utile finora distribuito agli azionisti. Ma l’eccezionale abbondanza finanziaria di questi anni potrebbe essere indirizzata anche ad un altro obiettivo: l’irrobustimento delle riserve a protezione del portafoglio prestiti, visto il difficile contesto economico-politico
In queste settimane gran parte della stampa economica si è concentrata sugli sviluppi del cosiddetto risiko bancario. Come già in passato, non si è trattato di un dibattito approfondito, con una larga parte degli interventi focalizzati sugli effetti dimensionali (capitalizzazione, sportelli, dipendenti, etc), piuttosto che sull’approfondimento delle prospettive che potrebbero aprirsi.
Quasi sempre omettendo di evidenziare che le operazioni di aggregazione in alcuni casi hanno avuto esito favorevole, in altri hanno assorbito energie per molti anni, non raramente si sono rivelate un fallimento o anche la premessa di disastri.
Prima di procedere, è opportuno guardare, seppure rapidamente, i consuntivi relativi ai primi 9 mesi del 2024. Per i cinque gruppi maggiori i ricavi complessivi sono cresciuti a/a di quasi il 7%, incremento trainato con intensità simile dal margine d’interesse e dai ricavi da commissioni. A questo ulteriore aumento dei proventi si è contrapposto un contenuto appesantimento dei costi (+1,7%), in misura prevalente conseguenza del rinnovo del contratto nazionale dei dipendenti bancari.
Ne è derivata un’ulteriore discesa del cost/income ratio, ora in media a quota 40 (-2 punti percentuali), con i due gruppi maggiori anche al di sotto di questa soglia (Intesa 39,1, UniCredit 36,6) e gli altri tre compresi tra 45,8 (Mps) e 53,7 (Bper). A determinare un così ampio intervallo di valori contribuiscono più fattori: una possibile diversa efficacia della gestione, eventuali processi di trasformazione in corso e (aspetto più strutturale) la composizione del portafoglio di attività, essendo spesso per ciascuna di queste molto diversa la relazione tra ricavi e costi (in particolare, canali distributivi e personale).
Nell’insieme, il risultato lordo di gestione è aumentato di circa l’11% e l’utile netto del 20%. Per quest’ultima grandezza si va dal + 5% di Bper, al 16-17% di Intesa e UniCredit, al 25% di Bpm fino al quasi +70% del Mps, gruppo avviato ad una positiva normalizzazione. Nella prima metà dell’anno, per le cosiddette banche significative (quelle sottoposte alla vigilanza europea), il RoE al netto delle componenti straordinarie è stato certificato pari al 15,4% .
Da questi dati non traspare il mutamento di passo della politica monetaria europea. Non poteva essere che così, considerato che dei tre tagli dei tassi di riferimento solo uno (quello di giugno) ha avuto modo di produrre qualche effetto. L’impatto delle altre due riduzioni (18 settembre e 23 ottobre) apparirà evidente nei prossimi conti trimestrali.
Lo scorso febbraio, il governatore Panetta ha ricordato che in Italia circa l’80% delle consistenze dei prestiti alle imprese e circa il 35% di quelli alle famiglie sono a tasso variabile (le corrispondenti quote in Francia e Germania sono inferiori al 40% per i prestiti alle imprese e tra il 5 e il 15% per quelli alle famiglie).
Nella contabilità del solo terzo trimestre 2024, un indebolimento del margine d’interesse è comunque percepibile: se si esclude Mps, per gli altri 4 gruppi la variazione rispetto al trimestre precedente è nulla o (limitatamente) negativa.
Forti del consuntivo dei primi 9 mesi, i manager bancari si dicono convinti di poter conseguire nell’intero 2024 un utile superiore a quello già abbondante dell’anno precedente. I vertici dei due gruppi maggiori si sbilanciano fino ad affermare di essere nella condizione di poter incrementare ulteriormente l’utile netto nel 2025, quando cioè la discesa dei tassi attivi dovrebbe esprimersi con maggiore intensità.
L’accresciuto incremento degli utili è stato in parte impiegato nel rafforzamento patrimoniale, target a questo punto pienamente conseguito: nel recente Rapporto sulla stabilità finanziaria si legge che, nel primo semestre dell’anno, il rapporto tra il capitale di migliore qualità (CET1) e le attività ponderate per il rischio (RWA) ha raggiunto per l’intero sistema il 15,9%, con le banche significative 40 centesimi al di sopra della corrispondente media rilevata per gli intermediari europei sottoposti al Meccanismo di vigilanza unico.
La maggior parte degli utili continua ad essere distribuita agli azionisti sotto forma di dividendi e di riacquisto di azioni. Se si scorrono i comunicati stampa si constata che la quota dell’utile netto “restituita” agli azionisti è da tempo molto alta (80-90%). Ne è derivata una forte rivalutazione dei titoli bancari italiani, attualmente in media più apprezzati (price to book value) di quelli degli altri principali paesi europei.
Il triennio di utili particolarmente abbondanti, ha indotto alcuni gruppi a considerare l’ipotesi di procedere a significative acquisizioni, tendenza condivisa anche da importanti realtà bancarie europee (Bnp Paribas-Axa, Bbva-Banco-Sabadell). Alle due operazioni appena citate, si potrebbe aggiungere anche UniCredit-Commerzbank, ma le possibilità che questa iniziativa si concluda positivamente sembrano in fase di ridimensionamento.
Forse anche per questo, UniCredit ha nelle settimane scorse proposto un’offerta pubblica di scambio (Ops, carta contro carta) per la Bpm, un’operazione da 10 miliardi di euro. Bpm, da parte sua, aveva nelle settimane precedenti avviato un’Opa nei confronti di Anima, società di cui è già azionista (22%) e con cui ha consolidati rapporti. Inoltre, a metà novembre Bpm e Anima hanno acquisito dal MEF rispettivamente il 5% e il 3% del Mps nell’ambito di un’operazione (cessione del 15%) che di fatto chiude l’intervento pubblico a sostegno del gruppo toscano (11,7% è la quota residua del MEF).
Ognuna di queste iniziative sarebbe meritevole di attenzione. Non è questo, tuttavia, l’aspetto sul quale si vuole qui richiamare l’attenzione. Oltre ai percorsi prima accennati, l’eccezionale abbondanza finanziaria di questi anni avrebbe potuto essere indirizzata anche ad un altro obiettivo, e cioè all’irrobustimento delle riserve a protezione del portafoglio prestiti, di fatto un’altra modalità di rafforzamento patrimoniale.
Se si guarda ai consuntivi del recente passato questo non è avvenuto: nei primi tre trimestri 2024 si registra un ulteriore ridimensionamento delle rettifiche su crediti (-13% a/a in media), a meno della metà di quelle del 2022. Il cosiddetto costo del rischio (il rapporto annualizzato tra rettifiche e ammontare dei finanziamenti in essere) è diminuito moltissimo, addirittura al di sotto della doppia cifra per qualche gruppo.
I necessari punti di riferimento per riflettere su questo tema si possono trovare nell’ultimo Rapporto sulla stabilità finanziaria. In questa prima parte del 2024 il tasso di ingresso in default dei prestiti alle famiglie è rimasto stabile allo 0,8%, quello delle imprese è salito fino al 2,4% nel II trimestre per scendere al 2,2% in quello successivo.
Le famiglie vulnerabili detengono circa l’8% del debito delle famiglie, mentre nel caso delle imprese vulnerabili questa quota non è lontana dal 35%. Nel suo comunicato Intesa segnala che nei 9 mesi 2024 ha riportato in bonis 2.250 imprese italiane. Secondo la nostra Banca Centrale la capacità delle imprese di rimborsare i debiti resta buona, grazie a condizioni di bilancio ancora solide, nonostante un leggero calo dei profitti. Un graduale incremento del tasso di deterioramento dei prestiti alle imprese è ritenuto possibile, ma limitato ad alcuni decimi di punto percentuale (al 2,8% nel 2025).
Difficile esprimersi su questo argomento perché importanti evidenze portano a conclusioni molto diverse. Il quadro politico globale è sempre più inquietante e la congiuntura economica nazionale e internazionale, già non brillante, propone rischi prevalentemente al ribasso: ne consegue l’opportunità di un rafforzamento dei presidi a difesa della qualità degli attivi. Le istituzioni ufficiali, nei documenti e negli interventi di loro autorevoli esponenti, continuano a richiamare le banche sulla necessità di attrezzarsi meglio per tempi futuri possibilmente non favorevoli. Tra gli interventi più recenti quello di Luis de Guindon, vicepresidente della Bce.
Chi vede con più ottimismo la situazione fa riferimento ad analisi finalizzate a valutare la sostenibilità economico-finanziaria delle nostre imprese. Tra esse un rapporto recente e autorevole (ISTAT, Rapporto competitività 2024) mostra che la quota delle imprese in salute è salita dal 22% del 2011 al 32% del 2020, superando il 35% nel 2022; nello stesso arco di tempo le imprese a rischio o fortemente a rischio sono scese dal 34% al 20%.
A determinare questi trend sarebbero stati, prima la drastica e strutturale selezione prodotta dalla crisi del 2011-12, quella che portò per quasi due anni il tasso di deterioramento dei prestiti alle imprese al di sopra dell’8%, con punte non lontane dal 10%. Un qualche ruolo lo hanno giocato negli anni più recenti anche le misure di sostegno alle imprese attivate durante la pandemia, in alcuni casi (garanzie statali) ancora parzialmente in funzione (il governatore Panetta a fine di ottobre ha sollecitato un loro più rapido superamento). In altri termini, la relazione qualità del credito e congiuntura sarebbe divenuta meno stretta del passato, meno ciclica.
Entrambe le posizioni sopra sinteticamente riassunte poggiano su argomenti molto solidi, che rispecchiano aspetti importanti della realtà attuale. Non di meno, appare evidente che la forte concentrazione sugli obiettivi di breve termine (in particolare, quello della soddisfazione degli azionisti) ha fatto venir meno la necessaria prudenza a fronte del difficile contesto economico-politico. Peraltro, in un periodo così favorevole dal punto di vista dei risultati economici, un significativo irrobustimento delle riserve a protezione del portafoglio prestiti avrebbe comportato solo una limitata riduzione dei trasferimenti agli azionisti.