ELEZIONI EUROPEE
Perché serve un'Europa sovrana

Ecco dove trovare argomenti, analisi, dati e giudizi non scontati sul cammino dell’Unione, colmando quel vuoto di dibattito in cui sono immersi oggi elettori e aspiranti eletti. Con l'indicazione delle tre sfide campali da affrontare. E le possibili soluzioni

Paola Pilati

Per chi volesse ancorare a ragionamenti, fatti, proposte, l’ozioso dibattito sul tema di quanto debba o possa essere “sovrana“ l’azione dell’Europa, la risposta viene da “Europa sovrana- Le tre sfide di un mondo nuovo”, il nuovo libro firmato da Paolo Guerrieri e Pier Carlo  Padoan.

Dal titolo potrebbe far pensare a un pamphlet o a un manifesto ideologico a uso elettorale, senonché il dubbio scompare considerando la storia professionale dei due autori: una carriera da professore di Economia Politica alla Sapienza di Roma e a Sciences Po di Parigi il primo, ex ministro dell’Economia il secondo, dopo aver ricoperto incarichi di vertice all’Ocse e al Fondo monetario.

Due economisti, dunque, con una visione internazionale che certo non lascia spazio alle mode del sovranismo corrente. Ma non gli impedisce di dire la loro sulle questioni più urticanti dell’attualità: la necessità di dotarsi di una difesa europea, la tendenza dei pesi massimi europei, Francia e Germania, a mettersi in concorrenza con gli altri paesi membri, le divisioni nella strategia nei confronti di Pechino, gli errori nella costruzione dell’euro e l’austerità controproducente, la nuova governance europea, tanto per citarne alcune.

Il “sovrana” del titolo rappresenta un auspicio. Di più: indica un’urgenza, una necessità. Pena la marginalizzazione dell’Europa nei giochi della governance globale, la rinuncia alla crescita, la perdita dell’identità economica e politica con gli interlocutori con cui si deve misurare, superpotenze o detentori di preziose risorse strategiche che siano.

Che la partita di una piena sovranità europea, sia nei processi di integrazione al suo interno che nel sistema mondiale, appaia agli autori una partita campale, è esplicito sin dall’inizio, quando si chiarisce che l’arma con cui il continente ha costruito la sua crescita economica, cioè l’apertura commerciale dell’area, diventerà una pistola scarica in un mondo che rischia di essere polarizzato in una struttura formato G2, governata cioè dal dualismo Usa-Cina, con i due blocchi che si sfidano via via in un sordo, oppure esplicito, antagonismo.

Se quindi l’Unione non metterà i propri obiettivi politico strategici al servizio di una politica economica estera autonoma, sia nei confronti degli Usa – con un accordo sulla transizione ambientale che eviti la concorrenza tra le due aree – che con la Cina – per ridurre la dipendenza europea dai suoi prodotti – finirà come il vaso di coccio tra i due vasi di ferro di manzoniana memoria.

Chiarito quello che appare essere il fine “teleologico” del libro, il ragionamento che viene svolto capitolo dopo capitolo ha innanzitutto un merito: fornire analisi, dati e giudizi non scontati sul cammino dell’Unione, colmando quel vuoto di dibattito in cui sono immersi oggi elettori e aspiranti eletti, come in attesa col fiato sospeso del rinnovo del governo dell’Europa, ma muti sui temi di fondo con cui esso si dovrà confrontare.

Agli autori, le sfide che ci troviamo di fronte sono ben presenti. Sono tre, come recita il sottotitolo. La prima è quella di ritrovare la strada della crescita. Ma quale crescita? Non più quella sostenuta, come è stato nell’ultimo decennio, dalla sola politica monetaria (con il QE) e dalle esportazioni, ma una crescita di lungo periodo, basata sullo sviluppo del mercato interno, che sconfigga la tendenza alla stagnazione secolare del continente e che colmi la differenza di passo sempre più marcata con gli Usa.

Poi c’è la seconda sfida, quella di un nuovo protagonismo europeo nella governance globale. Governance che non è mai stata così frammentata dopo il crollo del sistema di Bretton Woods, con un’impalcatura di regole e di istituzioni internazionali sempre più debole, e soprattutto con una nuova esigenza: non più solo la tutela degli interessi commerciali, ma della sicurezza. Economia e sicurezza, nel futuro non ci sarà più l’una senza l’altra.

Terza sfida: far evolvere l’architettura di governance interna europea è una necessità proprio per sostenere le prime due sfide. Così come sono, le procedure decisionali non funzionano, le risorse non bastano, le divisioni tra i paesi membri – con la tendenza sempre più marcata verso la difesa degli interessi nazionali contro quelli collettivi – inchiodano l’Europa all’impotenza.

Ci sono i presupposti per vincere le tre sfide?  Gli autori non si tirano indietro e mettono sul tavolo una serie di ricette.

Quanto alla prima sfida, la buona notizia è che, in uno dei momenti di accelerazione-reazione attraverso i quali l’Unione ha saputo nella sua storia scattare in avanti, verso l’obiettivo di darsi più integrazione, lo strumento per crescere lo ha messo in campo. È il piano NGEU arrivato dopo la crisi del Covid. Un mix di investimenti pubblici, finanziati per la prima volta con titoli europei, e riforme strutturali, con due direttrici, la transizione ambientale e digitale, che pur lasciando liberi i paesi sulle preferenze nazionali, ne vincolano le priorità. Coniugato con il Green Deal Industrial Plan, cioè la strategia di trasformazione dell’Europa entro il 2050 nel primo continente a neutralità carbonica, la Ue ha dato anche un colpo di timone nella direzione di ridare competitività alla sua struttura industriale, centrata sulle nuove tecnologie per abbattere la CO2.

L’insidia maggiore, in questa epocale sostituzione del capitale “marrone” con il capitale “verde”, sta nel fatto che i benefici di queste politiche sono di lungo periodo, mentre i costi sono elevati, e sono adesso.  È quella che, ricordano gli autori, viene definita la tragedia dei beni pubblici collettivi. Ma ciò che i policy maker non hanno interesse a fare oggi, potrebbe essere messo in campo da un’Europa davvero sovrana?

La risposta è sì, ma richiede riforme per rimuovere gli ostacoli all’innovazione tecnologica delle imprese, liberalizzare il mercato interno dei servizi, e soldi. Risorse che si possono ottenere o con nuovo debito, o facendo il primo passo verso la creazione di una capacità fiscale comune. Terreno minato questo, per la resistenza di molti paesi dell’Unione. Quello che sicuramente si può fare, affermano Guerrieri e Padoan, è sbloccare le due riforme che hanno penalizzato finora sia la competitività che la crescita delle imprese europee: l’unione dei mercati dei capitali e l’unione bancaria.

 La storia della costruzione dell’Unione europea, dagli anni Sessanta a oggi, è una storia di grandi momenti di convergenza (il Serpente nel tunnel, lo Sme, Maastricht, l’Unione monetaria), fortemente trainati da fattori di natura politica: l’unificazione della Germania e l’interesse della Francia a riequilibrare l’egemonia tedesca in economia furono determinanti per l’ultimo passo, la nascita dell’euro. Le varie crisi della moneta unica resero però evidenti le carenze nelle regole per far funzionare questa “moneta senza Stato”. Competitività e produttività divergenti tra paesi del Nord e paesi del Sud divennero sempre più marcate.

Il capitolo in cui viene illustrato il “trilemma” composto da mobilità di capitali, stabilità finanziaria e flessibilità fiscale, è particolarmente utile per misurare, oggi, il patrimonio di consenso politico nel progetto europeo: sono tutti e tre fattori di integrazione, sarebbero tutti e tre necessari, ma il capitale politico disponibile oggi in Europa non è sufficiente a farli andare avanti tutti. Occorre rinunciare a uno di loro.

Eppure la soluzione cooperativa alle sfide interne è nell’interesse di tutti i paesi membri, osservano gli autori, non solo per l’armonia del continente, ma per far crescere l’Europa nel gioco della distribuzione del potere globale. Per assumere quel ruolo che le permetta di influire nelle vicende internazionali e non di subirne solo gli shock. Per ricavare uno spazio – e un tornaconto – nell’antagonismo dei due blocchi Usa-Cina, usando l’approccio degli accordi multilaterali, per esempio con i paesi del Sud del mondo.

Questo obiettivo richiede un primo requisito: una leadership europea e non dei singoli Stati. Dunque una nuova governance del continente.

Le ricette possibili – e i relativi vantaggi e svantaggi – di questa nuova governance vengono passate in rassegna dagli autori. Dalla struttura a cerchi concentrici con diversi livelli di integrazione, dal più elevato al più blando, all’approccio detto dei club, in cui ogni club prevede un pacchetto di beni pubblici e di politiche europee con i paesi liberi di aderire a un club e non all’altro. Tema certamente complesso, ma ineludibile, visto che l’Unione si deve preparare all’ingresso di nuovi membri, previsto nel 2030 (Ucraina, Moldavia, Bosnia-Erzegovina, Montenegro, Macedonia del Nord, Serbia, Turchia), che aumenterà l’eterogeneità, l’esercizio del potere di veto e la tensione per la distribuzione delle risorse del bilancio comune.

Nel mondo nuovo che verrà, che posto avrà l’Europa? Il continente saprà uscire dal grande disordine del presente con una identità sovrana che le permetta di giocare nella serie A globale? La risposta che il libro offre è che è il mondo ad avere bisogno di più Europa. Lo tenga bene in mente la classe dirigente che prenderà il testimone dopo le elezioni europee. E se gli europarlamentari avranno dei dubbi, basterà una ripassata del libro di Guerrieri e Padoan, da tenere sempre in cartella.

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