COMMERCIO INTERNAZIONALE
Le conseguenze per l'economia italiana della fine dell'Accordo Multifibre

La liberalizzazione commerciale e l'ingresso della Cina nell'OMC hanno prodotto uno shock nel settore tessile-abbigliamento italiano. Una nuova ricerca ne indaga le caratteristiche

Rama Dasi Mariani e Giuseppe De Arcangelis
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Il settore del Tessile e dell’Abbigliamento (T&A) è stato oggetto di forti e prolungate limitazioni commerciali, rappresentando di fatto un’eccezione alle regole del GATT. In particolare, nel dicembre 1973, 42 paesi siglarono l’Accordo Multifibre (AMF) che permetteva ai paesi firmatari di regolamentare, sia bilateralmente sia unilateralmente, le esportazioni provenienti dai paesi in via di sviluppo. L’AMF è stato rinnovato tre volte (1977, 1981 e 1986) e si è concluso nel 1994 con la fine dell’Uruguay Round.

Tuttavia, il sistema delle quote non fu abolito del tutto e l’AMF fu sostituito dall’Accordo sul Tessile e sull’Abbigliamento (ATC), che prevedeva una liberalizzazione graduale in dieci anni a partire dal 1995 e l’eliminazione di tutte le quote il 1º gennaio 2005.

L’accordo lasciava ai paesi importatori la libertà di decidere i prodotti da liberalizzare in ciascuna fase, con la conseguenza che i prodotti meno sensibili, non soggetti a forte concorrenza, vennero liberalizzati per primi, mentre nell’ultima fase, dal 1º gennaio 2005, si realizzò la liberalizzazione degli articoli T&A più suscettibili alla concorrenza sui prezzi. A titolo di esempio, al 31 dicembre 2004 negli Stati Uniti l’89% di tutte le quote attive erano ancora in vigore e sarebbero state abolite in un solo giorno; similmente, nell’Unione Europea il 70% delle quote attive nel 1994 dovevano essere liberalizzate dall’oggi al domani.

Inoltre, durante il periodo di eliminazione dell’ATC, e precisamente nel 2001, la Cina entrò nell’OMC. Data la rilevanza della Cina nel settore, ciò rappresentò un’ulteriore e forse maggiore sfida per il tessile e l’abbigliamento. La Cina, infatti, è storicamente specializzata nel T&A. Basti pensare che negli anni ’80 le esportazioni del settore pesavano circa la metà di tutte le esportazioni cinesi. Perciò, nonostante le misure protezionistiche, durante gli anni ’90 le esportazioni cinesi nel T&A aumentarono a un tasso di crescita doppio rispetto al tasso di crescita settoriale mondiale.

Nei dati, l’effetto della liberalizzazione commerciale risulta più evidente tra gli anni 2000 e 2005, subito dopo l’ingresso della Cina nell’OMC. Infatti, l’aumento dei volumi di commercio in quegli anni è stato del 164% nel tessile e del 268% nell’abbigliamento. La quota delle importazioni cinesi nell’UE è aumentata dal 7% al 19% nel tessile e dal 20% al 43% nell’abbigliamento. I valori delle importazioni non sono aumentati nella stessa percentuale, segnalando un grande calo dei valori medi delle importazioni, riflettendo la grande diminuzione dei prezzi. Ad esempio, Harrigan e Barrows (2009), focalizzandosi sugli Stati Uniti, hanno mostrato che la concorrenza cinese ha diminuito relativamente di più i prezzi dei prodotti di più bassa qualità e ha così indotto uno spostamento della domanda dai prodotti di più alta a quelli di più scarsa qualità.

Tra i Paesi europei l’Italia era tra i giocatori più importanti nel commercio di T&A (Iapadre et al., 2016). Nel 2004 l’Italia era il maggiore importatore di prodotti tessili, sia in valore (22,5%) sia in volumi (17,3%), e di abbigliamento in volumi (16,5%), mentre la Germania era il primo importatore in valore (20,5%).

La figura qui sopra riporta i tassi di crescita anno su anno delle importazioni di T&A in Italia dal 1995 al 2010 distinguendo tra prodotti soggetti e non soggetti alle quote dell’ATC provenienti dalla Cina e dal resto del mondo (RDM). Le quote cinesi sono rappresentate dagli istogrammi misurati sull’asse destro.

La crescita delle importazioni cinesi è stata elevata per tutto il periodo grazie ai prodotti non soggetti a quote. Ad esempio, nella Fase 2 la crescita dei prodotti liberalizzati è stata sempre a doppia cifra e la quota delle importazioni cinesi è più che raddoppiata dal 3,3% al 6,8%. Tuttavia, come previsto, il rapido aumento si osserva dopo l’adesione all’OMC e in soli due anni la quota cinese raggiunge quasi il 15%, cioè cinque volte rispetto al 1996. L’anno 2005 è l’eccezione per il tasso di crescita nei prodotti sotto quota, ma è anche interessante poiché è anticipato da un calo nel 2004 dei prodotti già liberalizzati. La dinamica è notevole durante tutto il periodo soprattutto se confrontata con la dinamica del RDM, sebbene si osservi una chiara crescita divergente dopo il 2002, cioè l’adesione all’OMC.

In un recente contributo su “Economia Italiana”, studiamo l’effetto della fine dell’Accordo Multifibre in Italia, approfittando della disponibilità di dati sui contratti di lavoro nell’ambito del programma VisitINPS. In particolare, studiamo come le imprese italiane reagirono allo shock rappresentato dalla fine del sistema delle quote nel 2005.

La nostra attenzione si focalizza sulle dinamiche di ristrutturazione ipotizzando uno spostamento verso tecniche più efficienti a maggiore intensità di lavoro più qualificato. In altri termini, vogliamo indagare se il cambiamento verso tecnologie a più alta intensità di lavoro ad alta specializzazione, sia avvenuto principalmente tramite l’ingresso di imprese più competitive, o tramite l’uscita di imprese ad alta intensità di lavoro poco qualificato, oppure tramite la ristrutturazione delle imprese rimaste.

Anticipando alcuni dei risultati disponibili nel contributo, possiamo rivelare che l’effetto “disciplinante” in Italia iniziò ben prima del 2005 a causa dell’ingresso della Cina nell’OMC. Venendo alla natura della ristrutturazione, il maggiore cambiamento è avvenuto principalmente all’interno delle imprese che sono rimaste attive nell’industria per l’intero periodo. Il contributo netto dell’entrata e dell’uscita di nuove e vecchie imprese è infatti marginale.

Questa iniziale evidenza punta a favore del dinamismo dell’industria italiana, ma è necessaria un’ulteriore analisi per scoprire il ruolo di altri cambiamenti avvenuti nello stesso periodo, come l’introduzione della moneta unica e l’iniziale andamento del tasso di cambio dell’Euro tra il 1999 e il 2002, l’allargamento del 2004 (che offrì maggiori opportunità di trasferire fasi di produzione a bassa competenza verso l’Est) e la massiccia migrazione che subì un’accelerazione nel 2007, con l’ingresso della Romania e della Bulgaria nell’area Schengen.

Inoltre, è bene ricordare che, come tutti i cambiamenti, anche quello analizzato qui ha realizzato dei benefici generali a patto di sostenere dei costi imposti a qualche gruppo in particolare. In questo caso, sarebbe opportuno volgere lo sguardo anche ai lavoratori che a seguito dello shock commerciale hanno perso il lavoro. Quest’ultima dimensione potrebbe aiutare a trarre rilevanti conclusioni riguardo ai winners e ai loosers dello shock commerciale.


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