SCENARI INTERNAZIONALI
Sciarada Terra Santa

L'attacco israeliano a Gaza si è spinto troppo in là?  Di chi è la colpa se il processo per arrivare alla creazione di uno Stato palestinese è sempre fallito? E adesso, come rimettere in moto un processo di pace? Analisi delle origini di un conflitto sanguinoso che rischia di destabilizzare il mondo. Ma la storia e la composizione di casi apparentemente altrettanto irriducibili può dare qualche esempio

Oliviero Pesce
  • Vengono qui esaminati alcuni fattori relativi all’attuale situazione di Israele e dei territori Palestinesi e si sostiene la tesi che essa sia inestricabile senza una reale pacificazione e una soluzione politica e istituzionale. Si sostiene inoltre che i colpevoli, da entrambe le parti, dei crimini commessi, dovranno essere esclusi dalle prossime elezioni e da ogni soluzione pacifica.
  • Esaminati alcuni precedenti casi di processi di pacificazione (Sudafrica, Irlanda del Nord, Paesi Baschi), si sostiene che in Terra Santa (i) dovranno essere tenute al più presto elezioni libere, controllate internazionalmente, e (ii) che la pacificazione si potrà avere con la coesistenza di due Stati, la trasformazione di Gerusalemme in città aperta che non sia capitale di nessuno dei due Stati (o lo sia di entrambi), e (iii) che si dovrà ’istituire una unione regionale tra i due Stati, gestita inizialmente da autorità locali e neutrali.
  • Dovrà venire posto in essere un processo analogo a quello che si ebbe in Sudafrica dopo l’abolizione dell’apartheid, che contribuisca a un’effettiva pacificazione.
  • Non si tratta tanto di una speranza, quanto di un messaggio disperatissimo per disegnare quella che sembra, a chi scrive, l’unica alternativa ragionevole ad uno scenario di guerra, morte, distruzioni, deportazioni, terrore.

PREMESSA

1. Per tentare di superare la storia di guerre, di tentativi di pace, arretramenti, occupazioni e violenze che si sono avuti negli ultimi cento anni tra palestinesi e israeliani1 e tra lo Stato di Israele e il «non Stato» palestinese, e pensare a un nuovo e pacifico futuro (cosa che oggi suona utopistica, ma a cui si dovrà necessariamente arrivare), chiamiamo i territori da essi abitati, che nei secoli sono stati occupati da egizi, romani, ebrei, filistei, ottomani, mamelucchi, abbasidi, umayyadi, crociati, egiziani, inglesi, e oggi da ebrei e palestinesi (e, con un nuovo vocabolo, gazawhi), con un termine neutro – o quanto meno neutrale tra i due attuali contendenti – Terra Santa.

2. Ricordiamo un fatto fondamentale: i popoli che oggi abitano questi territori, israeliani e palestinesi, sono tutti semiti. Nonché tutti appartenenti a una religione abramitica. Essi dovranno necessariamente convivere, essendo irrealistico e criminale ritenere che si possano deportare o eliminare i milioni di persone che li abitano. Tesi condivisa da numerosi israeliani e palestinesi di buon senso. Superando scontri, incomprensioni e massacri del passato. Passato che ha anche visto lunghi periodi di pace e capacità – di frequente – di convivenza e rispetto reciproci.

3. Ricordiamo altresì alcuni dati fondamentali, trascurare i quali rende qualsiasi soluzione proposta per risolvere le attuali violenze e massacri del tutto parziale e ideologica, partigiana. Violenze e massacri purtroppo sono appartenuti a tutte le parti in causa, anche se oggi è stato Hamas a determinare la reazione israeliana, con l’attacco del 7 ottobre durante il quale sono state uccise 1.194 persone, prevalentemente civili, e sono stati presi circa 250 ostaggi.

4. Lo Stato di Israele nel 2022 aveva una popolazione di 9,656 milioni di abitanti, di cui 7,74 milioni per una larghissima maggioranza ebrei e 1,92 milioni arabi israeliani, per oltre l’80% musulmani. Ha una superficie di 22.145 km², 20.770 se si deducono dal calcolo alcuni territori occupati2. L’andamento della demografia in Israele, cui si è aggiunta la politica di attrazione di ebrei da tutto il mondo, hanno fatto sì che la densità della popolazione nell’ultimo decennio sia  aumentata da 335 a 436 abitanti per km². Ed un numero assai elevato di coloni israeliani si è radicato nei territori della Cisgiordania, danneggiando gli abitanti palestinesi.

5. Lo Stato palestinese, riconosciuto solo da alcuni paesi ed organizzazioni internazionali, occupa un’area di 6.225 km² – il 28% circa di quella di Israele, di cui 5.860 in Cisgiordania (la West Bank) e 360 km² nella Striscia di Gaza. Ha una popolazione che, a seconda delle fonti, va da 5,051 milioni a 5.506.412 abitanti, di cui 3.340.143 in Cisgiordania e 2.155.269 nella Striscia di Gaza, le cui rispettive densità sono di 570 e di oltre 6.000 abitanti palestinesi per km². In Cisgiordania inoltre vivono circa 500.000 coloni israeliani, in 279 insediamenti, di cui 147 non autorizzati, mentre circa 230.000 israeliani vivono a Gerusalemme Est, parte orientale della città e capitale proclamata dello Stato di Palestina, unilateralmente annessa da Israele nel 1967 dopo la guerra dei sei giorni.

6. Stiamo guardando quindi ad una presenza in Terra Santa di 8,4 milioni di israeliani non arabi e di 7,4 milioni di arabi, di cui 1,9 milioni in territorio israeliano e integrati in Israele. Una situazione inestricabile senza una reale pacificazione e una adeguata soluzione politica e istituzionale, anche se esistono isole di collaborazione ed alcune eccellenze arabe in Israele.

7. Inutile ripercorrere, per guardare al futuro, gli eventi dell’ultimo secolo. Tuttavia vanno ricordate due dichiarazioni: la dichiarazione Balfour, del 1917, con la quale si sosteneva che: «Il governo di Sua Maestà vede con benevolenza l’istituzione in Palestina [della quale aveva il controllo mediante un mandato] di una National Home per il popolo ebraico e farà del suo meglio perché tale fine possa essere raggiunto, rimanendo chiaro che niente deve essere fatto che possa pregiudicare i diritti civili e religiosi delle comunità non ebraiche esistenti in Palestina, né i diritti e lo status politico degli ebrei nelle altre nazioni.»

Trent’anni più tardi, nel 1947, dopo la Shoà e la fuga di molti degli ebrei sopravvissuti dall’Europa, la commissione delle Nazioni Unite che si occupò della cessazione del mandato britannico sostenne che:

«la commissione si è anche resa conto che il punto cruciale della questione palestinese deve essere individuato nel fatto che due considerevoli gruppi, una popolazione araba con oltre 1.200.000 abitanti e una popolazione ebraica con oltre 600.000 abitanti con un’intensa aspirazione nazionale, sono diffusi attraverso un territorio che è arido, limitato, e povero di tutte le risorse essenziali.3 È stato pertanto relativamente facile concludere che, finché entrambi i gruppi mantengono costanti le loro richieste, è manifestamente impossibile in queste circostanze soddisfare interamente le richieste di entrambi i gruppi, mentre è indifendibile una scelta che accettasse la totalità delle richieste di un gruppo a spese dell’altro

Israele è nato il 18 maggio 1948, quando tutte le potenze coloniali (tra le quali la Gran Bretagna) stavano rinunciando alle proprie colonie e possedimenti, in una poderosa rivoluzione mondiale che ha portato alla creazione di numerosissimi nuovi Stati, finalmente liberi. Ed è quindi l’unico Stato istituito nel XX secolo in un territorio prevalentemente abitato da altri, arabi musulmani e cristiani, e comunque non israeliani, che, con i suoi settlements, persegue, nel XXI secolo, l’occupazione «strisciante» della Cisgiordania.

E forse fa parte di questo processo l’obiettivo annunciato di occupare la Striscia di Gaza quanto più a lungo possibile, anche per la volontà del governo Netanyahu di restare in carica altrettanto a lungo. Peraltro, dopo l’eccidio compiuto da Hamas, il quotidiano della sinistra liberale “Haaretz”, di Tel Aviv, denuncia che i coloni israeliani in Cisgiordania hanno lanciato una campagna di attacchi, minacce e persecuzione contro i palestinesi, e che l’esercito israeliano non interviene per fermarli.

Anche in Cisgiordania, come vedremo meglio oltre, ci sono stati negli ultimi mesi morti e feriti palestinesi. La mancanza di un reciproco riconoscimento, e del riconoscimento di Israele da parte dei paesi arabi per lunghi anni, ha fatto sì che gli ultimi cent’anni siano stati caratterizzati da scontri, rivolte, conflitti armati, stragi.

8. Le ultime elezioni palestinesi si sono tenute nel 2006, per cui tanto la Cisgiordania che la Striscia di Gaza – sotto il controllo di Hamas dal 2007 – sono prive di un governo legittimo. Anche perché l’età media dei palestinesi è di 19 anni, i minori sono in maggioranza4 e quindi quasi tutti loro diciassette anni fa non potevano votare. Inoltre, come ricorda Mustafa Barghouti, il voto a favore di Hamas fu «per lo più» un voto «contro Fatah, contro la corruzione, contro il nepotismo, contro il fallimento del processo di pace e contro la mancanza di leadership». «Allora un voto per Hamas era un voto contro Fatah, più che contro Israele.» Non esiste quindi un governo legittimato da un voto popolare.

9. Lo stesso è a dire di Israele, l’unica democrazia del Medio Oriente, il cui capo del Governo, per motivi personali di corruzione, ha tentato di sottomettere la magistratura alla politica di un governo estremista, sia pure nel quadro di una complessa riforma della Giustizia, stravolgimento istituzionale questo cui gran parte della popolazione si è opposta vigorosamente. Quando ci sono profonde fratture tra l’Esecutivo e la Corte Suprema, come oggi in Israele, la democrazia è a rischio. E l’esecutivo sta perseguendo, a Gaza, una guerra caratterizzata da crimini e da massacri di civili che gran parte del resto del mondo ritiene inaccettabili.

10. Essere contrari alla politica di Netanyahu – in particolare nella Striscia di Gaza – e dei coloni israeliani in Cisgiordania, non ha nulla a che fare con l’antisemitismo. E ribadiamo che anche i palestinesi sono semiti. E anche se l’antisemitismo è un fenomeno purtroppo diffuso a prescindere dall’esistenza di Israele, si può ritenere che l’attuale politica abbia determinato la sua recente acutizzazione in Europa e nelle università americane.

11. Il massacro organizzato da Hamas il 7 ottobre 2023, durante il quale, come abbiamo visto, sono state uccise 1194 persone5 e catturati circa 250 ostaggi, tra i quali una trentina di bambini, è stato un crimine che nessun precedente torto di Israele può giustificare. Ad esso si sarebbe dovuto reagire con la eliminazione mirata dei capi di Hamas, nella Striscia di Gaza e all’estero, dove alcuni di essi abitano, con l’ergastolo per i duecento terroristi catturati quel giorno e i loro complici più immediati, e indicendo nuove elezioni nell’intero Stato palestinese, sotto un controllo internazionale quanto più ampio possibile, individuando le personalità palestinesi ancora dotate di ragione, come in Sudafrica un governo illuminato individuò in Mandela l’uomo del futuro.

Un primo passo razionale verso una normalizzazione. Che non potrà avvenire sin quando, non sapendo, né potendo, discriminare tra Hamas e civili, tra scuole, ospedali e depositi di armi o luoghi di riunione dei terroristi, si continuerà a colpire gli uni e gli altri, assieme ai bambini di Gaza.

L’assoluta insipienza, in questo frangente, dell’intelligence israeliana è un ulteriore ragione di delegittimazione del governo attuale, come molti israeliani e osservatori internazionali riconoscono. Mescolare alla politica l’estremismo «religioso» comporta sempre risultati aberranti. Ritenere che la Terra Santa sia stata promessa da Dio al popolo ebraico non può che impedire qualsiasi processo di pace con la popolazione autoctona palestinese. E i colpevoli, da entrambi i lati, dei crimini in corso, dovranno essere esclusi dalle prossime elezioni e da ogni soluzione pacifica.

12. Va ricordato che Netanyahu, affermò esplicitamente nel 2019:   

«Chiunque voglia impedire la nascita di uno Stato palestinese [premessa inaccettabile] deve sostenere il rafforzamento di Hamas. Questo è parte della nostra strategia, dividere i palestinesi tra quelli di Gaza e quelli in Giudea e Samaria».

In qualsiasi altro pase in guerra permanente, l’appoggio dato da Netanyahu ad Hamas, quali ne fossero state le motivazioni, avrebbe dovuto essere considerato intelligenza col nemico, alto tradimento. Se poi, come appare ormai certo, il governo israeliano era consapevole da un anno o più dell’attacco programmato da Hamas e lanciato il 7 ottobre scorso, non si può escludere che si sia lasciato che si verificasse per creare un casus belli: sia per liberarsi di Hamas sia per occupare ulteriori territori palestinesi.

Yoav Gallant, ministro della difesa di Israele, ha dichiarato che il suo paese farà tutto il necessario per «assicurare che Gaza non rappresenti più una minaccia per Israele». E ha anche affermato che non ci dovrà essere « alcuna presenza di civili israeliani»; il che fa temere – mascherato da «sicurezza» – un controllo militare della Striscia, e la trasformazione di Israele in un paese non solo di coloni, ma colonialista. Mentre una reale pacificazione è l’unica strada per far cessare i diffusi sentimenti di odio contro – e tra – i due contendenti.

13. I reciproci tentativi di eliminare popolazioni che vivono da secoli, o quanto meno da decenni, in Terra Santa, sono altrettanto criminosi. Persino Ehud Barak, che da giovane soldato combatté i palestinesi, e che poi da premier perseguì la pace, oggi da ex premier scrive:

«La mia generazione ha vissuto decenni di guerre e innumerevoli operazioni contro la Giordania e l’Egitto. Da giovani, non avremmo mai pensato di vedere la pace. Oggi la pace con questi Paesi ha rispettivamente 30 e 45 anni, ha resistito a sfide difficili e ha portato a collaborazioni molto più profonde di quanto l’opinione pubblica non si renda conto. Inoltre, la presunta logica che porta a concludere che la nostra sicurezza dipende dal pieno e permanente controllo israeliano della Striscia di Gaza porterà, attraverso la stessa logica, a credere che dobbiamo controllare il Libano, e successivamente la Siria, e forse l’intera regione».

Anche secondo lo storico Rashid Khalidi, in Terra Santa abitano

«due popoli, e, indipendentemente da come ci sono arrivati, il conflitto tra di loro non può essere risolto finché l’esistenza in quanto nazione di ciascuno sia negato dall’altro. La loro accettazione reciproca può fondarsi solo sulla completa uguaglianza di diritti, compresi i diritti nazionali, nonostante le cruciali differenze storiche tra loro. Non c’è altra soluzione sostenibile, escludendo l’impensabile nozione dello sterminio o dell’espulsione di un popolo da parte dell’altro».

L’ex premier Ehud Olmert, sostiene che:                                                                         

«Corriamo il pericolo gravissimo che Benjamin Netanyahu e i suoi alleati fanatici approfittino della crisi di Gaza per scacciare i palestinesi da tutti i territori occupati. Rischiamo la guerra regionale per questi messianici criminali. Dobbiamo fermarli, vanno anche contro la maggioranza degli israeliani, mi appello alla comunità internazionale che ci aiuti a farlo». E, ancora: «Israele deve annunciare subito che alla fine della battaglia contro Hamas è disposto a ritirare le truppe da Gaza a favore dell’arrivo di una forza di pace internazionale, destinata ad assumere il controllo per un tempo limitato. Va poi reso noto che noi siamo pronti a riprendere i negoziati per la partizione della terra e la creazione di uno Stato palestinese. Ora più che mai è necessaria una soluzione politica. Solo così la comunità internazionale potrà sostenere la nostra battaglia contro Hamas».                           

Anche per questo Olmert sostiene con fermezza che le colonie israeliane in Cisgiordania vadano smantellate, invece che incentivate.

«Se vogliamo esistere come Stato democratico dobbiamo separarci dai palestinesi. Non abbiamo alternativa: non vogliamo l’apartheid, non vogliamo l’espulsione forzata, vogliamo il nostro Stato più piccolo ma sicuro»6.

14. E tuttavia Israele, malgrado le pressioni internazionali, persegue una politica militare di distruzione indiscriminata, di occupazione e di assedio di un intero paese che ha indotto il Sudafrica a richiedere alla Corte Internazionale delle Nazioni Unite di condannare Israele per genocidio. La Corte di Giustizia, con ordinanza del 26 gennaio, ha ordinato a Israele di prevenire atti di genocidio, ma – riservandosi di entrare successivamente nel merito -, ha ritenuto “plausibile” che di genocidio si tratti. “I Palestinesi” recita l’ordinanza “sembrano costituire un gruppo distintivo nazionale, etnico, razziale o religioso e quindi un gruppo protetto nel senso di cui all’Articolo II della Convenzione sul Genocidio”; “la popolazione nella striscia di Gaza supera i 2 milioni di persone”; e “i palestinesi nella striscia di Gaza costituiscono una parte sostanziale del gruppo protetto”. Lo storico israeliano e studioso dell’olocausto Raz Segal, in una intervista del 16 ottobre 2023 a Democracy Now! ha definito le azioni di Israele a Gaza “a textbook case of genocide” (un caso da manuale di genocidio)7.

IL PROCESSO DI PACIFICAZIONE

15. Una volta risolto il problema contingente dell’eliminazione del braccio armato ed estremista di Hamas, che ha utilizzato gli aiuti internazionali per acquistare armi e creare un sistema di tunnel a scopi bellici (non di quello che ha istituito mense, ospedali e servizi per i civili palestinesi) e una volta tutelati i civili palestinesi, dei quali il governo israeliano (governo che avrebbe dovuto effettuare interventi assai più mirati) non tiene alcun conto, è necessario avviare un processo di pace.

Per un processo di pace esistono numerosi precedenti, a partire da quello – tutto arabo-israeliano – degli accordi di Oslo, dell’agosto 1993 (ufficialmente chiamati Dichiarazione dei Principi riguardanti progetti di auto-governo ad interim o Dichiarazione di Principi), conclusi tra Yasser Arafat e Yitzhak Rabin, con la mediazione di Bill Clinton; controfirmati a Washington nel settembre dello stesso anno, e poi frustrati dall’opposizione araba, dalle ambiguità di Arafat e dall’assassinio di Rabin da parte di un estremista israeliano, Yigal Amir, ad essi contrario.

Accordi che avrebbero potuto porre le basi per una pace duratura, con il riconoscimento di Israele da parte dei paesi arabi e l’istituzione di uno Stato palestinese, come sancito dalle Nazioni Unite già dal 1947; riconoscimento preceduto dalla istituzione dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP). Ma che hanno lasciato irrisolte questioni fondamentali, tra le quali i confini di Israele e della Palestina, gli insediamenti israeliani e la presenza militare di Israele nei territori palestinesi, e che non hanno portato al riconoscimento dello Stato palestinese.

Ma ce ne sono altri esempi, da tutto il mondo. Vanno dall’abolizione dell’apartheid in Sudafrica, al processo di pace in Irlanda, a quello delle provincie basche; alla politica di Gandhi che portò all’indipendenza dell’India. Senza dimenticare che, al termine della Seconda guerra mondiale, la pace europea si basò sulla condivisione del carbone e dell’acciaio della Francia e della Germania.

Si tratta di scegliere con cura le parti, israeliane, palestinesi ed estranee al territorio, capaci di negoziarlo e renderlo possibile, usando il bastone militare e la carota di adeguati incentivi da parte del mondo che vuole la normalizzazione, cui si è aggiunto, di recente, gran parte del mondo arabo, interessato tanto ad instaurare rapporti con Israele, quanto a vedere risolto il problema palestinese mediante la creazione di uno Stato. E appare ormai impossibile raggiungere il primo obiettivo senza che sia risolto il secondo.

16. Anche se, purtroppo – non ci nascondiamo le difficoltà – la ricerca della pace e della giustizia viene spesso frustrata dagli estremismi, nel caso della Terra Santa opposti e reciproci. Il 30 gennaio 1948 fu ucciso da un fanatico indù il Mahatma Gandhi; il 22 novembre 1963 morì John Fitzgerald Kennedy; il 6 giugno 1968 Robert Kennedy venne assassinato da un immigrato di origine giordano-palestinese, che sta ancora scontando la condanna all’ergastolo, e che motivò il suo gesto per il sostegno dato da Kennedy a Israele; nel 1980 venne ucciso John Lennon, per la sua notorietà e il suo pacifismo; nel 1986 toccò a Olaf Palme; il 4 novembre 1995, come abbiamo visto, venne assassinato Yitzhak Rabin, da un estremista israeliano contrario agli accordi di pace con la Palestina. O si può morire per un incidente aereo, nell’espletamento delle proprie funzioni, come avvenne a Dag Hammarskiöld, Segretario generale delle Nazioni Unite dal 1953 al 1961 e premio Nobel per la Pace.

17. Una possibile strada è stata tracciata dallo scrittore irlandese Colum McCann, con il bellissimo libro Apeirogon8, che a mio sommesso avviso meriterebbe sia il Nobel per la Letteratura sia quello per la Pace. È la storia vera di un padre palestinese, Bassan Aramin, la cui figlia Abir viene uccisa dalla polizia israeliana, e l’israeliano Rami Elharam, la cui figlia Smador viene uccisa da un commando palestinese: uccisioni che invece di portare a ulteriori odii e vendette li inducono ad operare assieme, eroicamente, in una missione congiunta di pacificazione, in tutta la Terra Santa e all’estero.

18. In Sudafrica il regime di apartheid, istituito nel 1948, lo stesso anno dell’istituzione dello Stato di Israele, durò sino al 1991. Il governo bianco decise di liberare Nelson Mandela da una lunga prigionia e di istituire, nel 1995, una Commissione per la verità e la riconciliazione, che si è occupata di raccogliere testimonianze sulle violazioni dei diritti umani nel paese e che concesse l’amnistia a chi confessò spontaneamente e pienamente i crimini commessi agli ordini del governo contro i neri, e lo stesso fece per gli atti di terrorismo commessi dai neri nei confronti dei bianchi. La Commissione raccolse le testimonianze delle vittime e dei perpetratori dei crimini commessi da entrambe le parti durante il regime, richiedendo e concedendo (ove possibile) il perdono per azioni politicamente motivate svolte durante l’apartheid, per superarla non solo per legge ma per riconciliare realmente vittime e carnefici, oppressori ed oppressi. Il tribunale ebbe una vasta eco nazionale e internazionale e svolse un ruolo importante nella transizione del Sudafrica dal segregazionismo ad una nuova organizzazione democratica, con pari diritti per bianchi e neri.

Fu merito di Mandela sostenere che il perdono dovesse essere la principale risposta dei neri a ciò che avevano subito durante l’apartheid; anche se la Commissione concesse l’amnistia solamente a 849 persone e la negò a 5.392, su un totale di 7.112 richieste, i risultati raggiunti furono notevoli e portarono effettivamente alla pacificazione fra le parti. La strada del dialogo appare l’unica possibile per raggiungere una reale pacificazione anche in Terra Santa. Anche qui, come in Sudafrica, i responsabili delle prevaricazioni e dei massacri, sia palestinesi che israeliani, dovrebbero partecipare al processo, come fece l’ex-presidente Frederik de Klerk, che pure aveva operato per l’abolizione dell’apartheid, il quale si presentò di fronte alla commissione e si scusò pubblicamente per le sofferenze causate dai governi bianchi alla popolazione nera.

Ovviamente il recente deferimento di Israele alla Corte Internazionale di Giustizia delle Nazioni Unite non ha nulla a che fare con il processo auspicato. Ma il governo di Israele non sembra comprendere il concetto di eccesso di legittima difesa, né quello di proporzionalità, né che gli attacchi di Hamas non sono stati effettuati da donne e bambini.

19. Il processo di pace in Irlanda del Nord si basò sulle iniziative che posero fine – nel 1998 – al trentennale conflitto nordirlandese tra cattolici e protestanti. A partire dal 1994 si tennero una serie di colloqui tra i leader di due dei principali partiti del nazionalismo nordirlandese, al fine di raggiungere la fine del conflitto. Colloqui iniziati già alla fine degli anni ‘80 con il sostegno del governo della Repubblica d’Irlanda, l’intervento di alcuni mediatori e il coinvolgimento del governo britannico e delle organizzazioni paramilitari irlandesi (compresa l’IRA, Irish Republican Army, che pure aveva pianificato una guerra di lunga durata).  Nel 1998 venne firmato il cosiddetto Accordo del Venerdì Santo, o Belfast Agreement, con i governi britannico e irlandese (un accordo internazionale) e la maggioranza dei partiti politici dell’Irlanda del Nord che lo approvarono (un accordo multilaterale), accordo che fu confermato con un referendum sia nell’Irlanda del Nord sia nella Repubblica irlandese.

Le tensioni e gli scontri del trentennio precedente (The Troubles, i Disordini), tra la comunità cattolica, autonomista e repubblicana, e i protestanti dell’Ulster, legati al dominio britannico, ebbero finalmente termine. Il conflitto si era esteso anche al Regno Unito e alla Repubblica d’Irlanda, e causò oltre 3.500 morti da ambo le parti. Ma l’impossibilità di vivere in un perenne clima di guerra sfociò, dopo trent’anni, in una soluzione concordata. Tale impossibilità dovrebbe convincere anche israeliani e palestinesi a convivere pacificamente, in due Stati contigui.

20. Il conflitto basco fu un conflitto armato avvenuto in Spagna e Francia dal 1968 fino al 2011 tra il governo spagnolo, i gruppi indipendentisti baschi e gruppi paramilitari composti da neo-fascisti anti-indipendentismo. Il Paese basco si affaccia sul Golfo di Biscaglia e si estende per 20.664 km² – grosso modo le dimensioni di Israele – tra la Spagna e la Francia, a cavallo dei Pirenei. Ma la rilevanza politica della questione basca è sempre stata assai maggiore in Spagna che non in Francia, dove le aspirazioni indipendentiste sono state sempre minoritarie. L’aspirazione all’indipendenza dei paesi baschi spagnoli nasce alla fine dell’Ottocento, per la fine di alcune autonomie di cui la regione godeva precedentemente. Nel 1958, alcuni giovani nazionalisti fondarono il gruppo separatista ETA, separatista e antifranchista, che assunse presto aspetti terroristici, e commise, negli anni, numerosi attentati.

L’attentato più famoso fu quello in cui alcuni suoi membri fecero saltare in aria l’auto del capo del Governo, l’Ammiraglio Luis Carrero Blanco, nel centro di Madrid. Il 12 aprile 1985 venne fatta esplodere una bomba in un ristorante di Torrejon de Ardoz, provocando 17 morti e 82 feriti; ristorante che era molto frequentato dal personale statunitense della vicina base aerea. L’attentato fu rivendicato non solo dall’ETA ma anche dalla Jihad islamica. Il 14 luglio 1986, un’autobomba esplose in piazza della Repubblica Dominicana, a Madrid, uccidendo 12 agenti della Guardia Civil. Il 19 giugno 1987, un’autobomba esplose nel sotterraneo di un grande magazzino del centro commerciale Hipercor, a Barcellona, provocando 21 morti e 45 feriti. In occasione di questo attentato l’ETA diramò un comunicato in cui affermava che «si [era] trattato di un errore». Meno di 6 mesi dopo, a Saragozza, un’autobomba davanti ad un palazzo della Guardia Civil uccise 11 persone, ferendone altre 40, attentato rivendicato dall’ETA. Il 7 maggio 2000, José Luis López de la Calle, giornalista spagnolo, viene ucciso dall’ETA. Il 30 ottobre dello stesso anno, l’ETA uccise il giudice Francisco Querol Lombardero, utilizzando un’autobomba. Un mese dopo, Ernest Lluc, ex-ministro, viene ucciso dall’ETA. In seguito alla serie di attentati e uccisioni, l’ETA venne inserita nella lista delle organizzazioni terroristiche degli Stati Uniti. Il 30 dicembre 2006, nell’aeroporto di Madrid-Barajas, un’autobomba innescata dall’ETA esplode uccidendo due persone e ferendone altre 52. Tra gli anni ‘90 e il 2000, per finanziarsi l’ETA si rese protagonista di azioni mafiose e di diversi sequestri ed estorsioni.

Alla serie di arresti e condanne di diversi membri dell’organizzazione, l’ETA rispose con diversi attentati tra il 2008 e il 2009. In seguito all’arresto degli ultimi due leader del gruppo, l’ETA proclamò nel 2011 la fine della lotta armata e nel 2018 il gruppo fu sciolto definitivamente. L’ETA in tutta la sua storia ha ucciso un totale di 829 persone tra civili, militari e membri di gruppi paramilitari e neo-fascisti. Qui in realtà non si ebbe un vero processo di pacificazione, ma l’azione di polizia e le concessioni politiche e amministrative del governo centrale nei confronti dei paesi baschi portarono all’esaurimento delle aspirazioni autonomiste. I paesi baschi, tra l’altro, sono tra i più ricchi e industrializzati della Spagna, e quelli con la minore disoccupazione.

IL FUTURO POLITICO E ISTITUZIONALE

21. Malgrado i tentativi del governo Netanyahu e dei suoi alleati estremisti di procedere con la colonizzazione e il controllo militare da parte israeliana dei territori ancora abitati dai palestinesi, tanto nella Striscia di Gaza che in Cisgiordania, è ormai opinione comune della comunità internazionale che l’unica soluzione perseguibile sia quella della formazione di uno Stato palestinese e della coesistenza dei due Stati. Opinione condivisa, nei territori, dal movimento A Land for All, animato da personalità israeliane e palestinesi per perseguire la coesistenza.

22. Malgrado questa sia una condizione essenziale per pervenire a una soluzione, essa non è, da sola, sufficiente. L’interdipendenza e la commistione tra israeliani e palestinesi che abbiamo esaminato innanzi è tale che l’ipotesi che si possano «tenere separati», come ha auspicato Olmert, non appare realistica. Difficile eliminare dalla Cisgiordania 279 insediamenti di coloni israeliani, abitati in media da 1.800 persone ciascuno, o estromettere 230.000 israeliani da Gerusalemme Est.

Il primo passo verso la normalizzazione è quello di elezioni libere, effettuate sia nei territori palestinesi che in Israele, nel quadro di un’egida internazionale quanto più ampia possibile, che escluda dalla competizione quanti, da un lato e dall’altro, si sono resi responsabili di violenze, occupazione di territori, e crimini di guerra. E vero che le elezioni israeliane sono libere, e che Israele è uno Stato democratico, ma è essenziale che nelle future elezioni, che dovranno sancire la formazione dello Stato palestinese, venga garantita l’esclusione di quanti si sono resi responsabili di violenze, occupazione di territori, e crimini di guerra. Ed esse dovranno dare, sia agli israeliani che ai palestinesi, gli stessi diritti e la stessa possibilità di circolare liberamente. I coloni israeliani che abitano territori palestinesi o, meglio, che abiteranno il nuovo Stato palestinese, dovranno essere pronti ad essere governati da autorità palestinesi, come gli arabi di Israele lo sono dalle autorità israeliane.

In due sistemi giuridici diversi, ma che entrambi dovranno attribuire gli stessi diritti e doveri a tutti gli abitanti di ciascuno Stato, senza distinzioni etniche o di cittadinanza. E per quanto possibile non militarizzati. Ciò sarà possibile solo se entrambe le nazioni concorreranno a perseguire al più presto una reale pacificazione e se procederanno ad assicurare un reciproco riconoscimento.

23. Se i due Stati sono essenziali, altrettanto essenziali sono altri due sviluppi economico-istituzionali. Il primo è la trasformazione di Gerusalemme in una città aperta, e aperta in particolare alle tre religioni monoteistiche la cui storia si è incrociata per secoli con quella della città, e che essa non sia capitale di nessuno dei due Stati, o lo sia di entrambi.

La seconda è l’istituzione di una Unione dei due Stati, sul modello europeo, gestita nel lungo periodo da entrambi, ma inizialmente da un’autorità in parte internazionale (anche se partecipata da esponenti di Israele e del nuovo Stato palestinese), che funga da arbitro neutrale e che indirizzi i due Stati verso una effettiva collaborazione. Essa dovrà comprendere alcuni Stati arabi, gli Stati europei che più hanno contribuito alla istituzione dello Stato di Israele e ne hanno garantito l’esistenza, e le autorità spirituali basate a Gerusalemme. Una sorta di incrocio tra la Commissione europea e il Cortile dei Gentili.

Sarebbe auspicabile che di questa Unione entrino a far parte, successivamente, la Giordania e un Libano altrettanto pacificato, per stabilizzare l’intera regione.

24. Il processo andrebbe integrato da un Tribunale analogo alla Commissione sudafricana che operò in quel Paese al fine di porre fine all’apartheid non solo sul piano giuridico, ma anche negli animi degli interessati al processo. E che dovrebbe applicare, come in quel caso, il concetto di giustizia riparativa (Restorative Justice), tra le due parti in causa.

25. È necessario ricordare che, dal 7 ottobre al 28 dicembre, tra gli israeliani ci sono stati circa 1.400 morti, dei quali circa 500 soldati e 900 civili, e almeno 9.000 feriti; e in Palestina, sino al 22 dicembre9, a Gaza almeno 20.057 persone uccise, tra le quali almeno 8.000 bambini, e più di 53.320 feriti, di cui 8.663 bambini; in Cisgiordania almeno 303 persone uccise, tra cui 76 bambini, e almeno 4.665 feriti.

26. Da parte israeliana la “riparazione” dovrebbe concretizzarsi nel contribuire alla crescita della Palestina, il cui sviluppo economico è stato conculcato – oltre che dalla corruzione palestinese e dall’utilizzo da parte di Hamas di fondi degli aiuti internazionali per l’acquisto di armi e la costruzione del suo sistema di tunnel a fini militari – dai coloni israeliani nei territori palestinesi e dallo stato di semi-colonie cui i territori abitati dai palestinesi sono stati ridotti.

I disoccupati palestinesi sono il 46% nella Striscia di Gaza e il 15,5% in Cisgiordania, mentre Israele è al 41° posto nel mondo per Pil, pari a 395 miliardi di dollari (circa 11,7 volte quello della Palestina, di 33,9 miliardi) e al 26° posto per Pil pro capite10 (di 43.592 dollari, 6,5 volte quello dei palestinesi, pari a 6.711 dollari).11 Israele è il Paese più sviluppato del Medio Oriente, uno dei paesi più avanzati del mondo, ed è al primo posto in Medio Oriente per ricchezza media per adulto, aspettativa di vita (di 82 anni per gli uomini e 84,9 per le donne),12 e per l’innovazione.

Un processo, finanziato da Israele, di scolarizzazione dei giovani palestinesi – anche a livello universitario – e di convergenza economica, nel lungo periodo, tra i due Stati, contribuirebbe alla pacificazione. Come abbiamo visto nel caso dei paesi baschi, il fatto che essi fossero tra i più industrializzati della Spagna, nonché quelli con la minore disoccupazione, contribuì certamente alla cessazione delle ambizioni autonomistiche che avevano fomentato il terrorismo13. Eppure, mentre Israele distrugge Gaza, chiede un coinvolgimento di Usa, Gran Bretagna, Francia e arabi del Golfo per la ricostruzione.                         

27. Da parte dello Stato palestinese, che dovrà anch’esso riconoscere lo Stato di Israele e garantire la pace nell’intera area, le riparazioni dovrebbero consistere nell’individuare e rinviare a giudizio i terroristi ancora attivi, o comunque sfuggiti alle rappresaglie israeliane, e nel risarcire adeguatamente – per quanto possa valere un risarcimento monetario -, le famiglie delle persone uccise da Hamas nei raids del 7 ottobre, nei successivi scontri, o morte in cattività.

28. Un clima di reciproca fiducia è essenziale per raggiungere questi risultati, anche se le difficoltà per pervenirvi sono enormi. L’alternativa è la continuazione del conflitto, l’uccisione di terroristi che saranno sostituiti da altri terroristi, a cominciare, come si è visto, dall’aumento delle attività militari di Hezbollah e dagli attacchi degli Houthi – che hanno sostenuto di agire per solidarietà con la Striscia di Gaza – contro navi israeliane (e non); il rischio di una guerra tra l’Iran, il Libano e Israele; la totale instabilità dell’intera area, che può forse favorire la Russia di Putin, forse (ma non in un contesto di guerra aperta) l’Iran, ma non certo gli Stati arabi, interessati a un processo di normalizzazione che Hamas ha brutalmente interrotto. E che potrebbe, se il conflitto non cessasse in tempi brevi, comportare una recessione in Israele, e un ulteriore aumento dell’antisemitismo. Come ha sostenuto Anna Momigliano, corrispondente dall’Italia di “Haaretz”:

«L’illusione che non risolvere la questione palestinese non avesse conseguenze dirette per gli israeliani è andata in frantumi il 7 ottobre, perché si basava sul presupposto che la crescita e l’aumento del benessere potessero coincidere con uno stato non di pace, ma di quiete».                                                                                                     

Ma è difficile che la «quiete» possa perdurare tra occupazioni, controlli militari, prigioni, check points, razzi, droni, bombardamenti, uccisioni. Come ha ricordato il Presidente Mattarella, coloro che hanno sofferto il turpe tentativo di cancellare il proprio popolo dalla terra, sanno che non si può negare a un altro popolo il diritto a uno Stato. A quanto sta avvenendo si deve porre fine al più presto.

Gennaio-febbraio 2024


1 Vedi Rashid Khalili, The Hundred Years’ War on Palestine. A History of Settler Colonial Conquest and Resistance. Profile Books Ltd., London, 2020.

2 Fonte: “The Economist” per “Internazionale”, Il mondo in cifre 2022

3 Abitato oggi da quasi 16 milioni di persone, malgrado l’aridità e la scarsezza di risorse.

4 Fonte: Wikipedia, per il 2020

5 859 civili, 278 soldati e 57 membri delle forze dell’ordine.

6 Vedi l’intervista di Davide Frattini a Olmert sul “Corriere della Sera”, novembre 2023- La fonte di queste citazioni è la versione online di giornali italiani.

7 Citato in una intervista alla scrittrice palestinese Isabella Hammad sul “Financial Times” del 20-21 gennaio 2024 e in rete sub Rez Segal.

8 Colum McCann, Apeirogon, Feltrinelli, Milano, 1922; edizione originale, Random House, New York, 2020.

9 Fonte: varie pubblicazioni online dell’ISPI, 22 dicembre 2023. Oggi saremmo a oltre 28.000.

10 Nel 2022. Fonte Wikipedia. Secondo la stessa fonte il PIL PPP sarebbe sostanzialmente inferiore, di 6,3 miliardi.

11 Fonte: “The Economist” per “Internazionale”, Il mondo in cifre 2022.

12 Fonti: Wikipedia, Il mondo in cifre 2022,  cit..

13 Fonte: “The Economist” per “Internazionale”, cit.