Una ricerca BCG-Quantis stima che entro il 2050 i raccolti possano ridursi fino al 35% solo per effetto di eventi climatici. Per gestire il rischio che può coinvolgere le 15 colture chiave che rappresentano il 65% della produzione agricola e il 70% dell’apporto calorico globali lo studio ha messo a fuoco quali sono i modelli che rendono vulnerabile il nostro sistema agroalimentare. E come intervenire
Il mondo delle commodity alimentari non è stato mai così volatile come di questi tempi, dall’inizio del secolo. Nel 2024 il prezzo del riso ha avuto oscillazioni significative per 189 giorni (le oscillazioni fuori norma si erano limitate a 94 giorni nel 2020); per 200 giorni quelle del prezzo del grano (solo per 61 giorni nel 2020); il prezzo del cacao aveva vissuto in continuo bradisismo per 224 giorni: il triplo di quattro anni prima.
La frequenza di eventi climatici estremi e le incertezze geopolitiche hanno fatto la loro parte, si sono riflessi sulle tariffe e sul commercio internazionale e ci hanno resi consapevoli che possono mettere in crisi le zone deputate all’approvvigionamenti agroalimentare in maniera irreversibile, e di conseguenza anche noi che ne siamo i consumatori.
Solo il cambiamento climatico ha già prodotto disastri di grandi dimensioni. La mancanza di piogge ha causato il crollo dell’olio di palma in Thailandia e quello di soia in Brasile e Argentina. Poi ci sono eventi come la guerra Russia-Ucraina, che ha sconvolto la filiera che produceva il 60% dell’olio di girasole del mondo.
Un Rapporto di Boston Consulting Group (BCG), in collaborazione con Quantis, ha analizzato la vulnerabilità delle filiere agroalimentari globali per arrivare a proporre una roadmap che punta a rafforzarne la resilienza.
Un esempio è quello dell’Africa occidentale, dove la produzione di cacao – quella che rifornisce il 60 per cento del fabbisogno mondiale, soprattutto in Europa e Nordamerica – è stata messa in ginocchio in parte dalle piogge fuori stagione, in parte dai parassiti infestanti. Risultato, il prezzo è schizzato del 400%, a 13 mila dollari la tonnellata, il più alto di sempre.
Per ridurre il rischio di fratture nelle catene di approvvigionamento vanno fatti investimenti. Occorre puntare sulla ricerca per rendere le piante sempre più resistenti, usare tecnologie e pratiche agricole avanzate, con l’aiuto dell’intelligenza artificiale, ma anche migliorare la logistiche e perfezionare i sistemi di conservazione.
La ricerca BCG-Quantis parte dalla stima che entro il 2050 i raccolti possano ridursi fino al 35% solo per effetto di eventi climatici. Prendiamo il riso, che rappresenta il 22 per cento dell’apporto calorico globale. L’India, che pesa per il 24% della produzione globale, rischia di vedere restringersi questa quota fino al 18%. In Cina, che è il primo produttore mondiale, è in pericolo il 4% della produzione. E l’impatto può essere ancora più pesante per paesi più poveri come il Bangladesh e il Vietnam (che perderebbero fino a 4 miliardi di dollari di incassi). Il che vorrebbe dire un crollo della redditività del lavoro dell’agricoltore di oltre il 40%.
Per gestire il rischio che può coinvolgere le 15 colture chiave che rappresentano il 65% delle produzione agricola e il 70% dell’apporto calorico globali (grano, riso, caffè, mais), lo studio ha messo a fuoco quali sono i modelli che rendono vulnerabile il nostro sistema agroalimentare.
Il primo è la concentrazione delle colture. Alcune aree del mondo si fanno carico di quote sproporzionate di produzione agricola, come è il caso del riso, per il 40% concentrato tra India, Bangladesh e Indonesia, o il cacao per il 60% proveniente da Costa d’Avorio e Ghana.
L’altra vulnerabilità è la genetica delle colture, per cui una singola malattia può compromettere una produzione a livello mondiale, come è stato per le banane Cavendish, che rappresentano il 95% della produzione commerciale e non esiste a oggi una varietà capace di sostituirla su larga scala.
Infine, la carenza di innovazione lascia colture chiave, come la patata, esposte a crisi climatiche. Le varietà geneticamente modificate, che sono più resistenti, non sono altrettanto accettate dai consumatori.
Come intervenire? Quali strategie mettere in campo, considerando che si tratta di problemi su scala mondiale? Certamente non può che essere una strategia a lungo termine, ben consapevoli che la volatilità non scomparirà.
Ma anche nell’intervento ci sono dei rischi. Per esempio, lasciare campo libero ai paesi ricchi, quelli che già dominano le catene di distribuzione globali, come il Canada e i paesi Nordici, che selezionano le esportazioni sulla base dei loro rigidi criteri “low-carbon”, vorrebbe dire mettere fuori gioco i piccoli agricoltori, lasciare campo libero solo alle grandi industrie internazionali e lasciare i paesi produttori – spesso indebitati pesantemente – al loro destino. Il che significherebbe rinunciare a convincere quelle parti del pianeta ad accettare le regole per mitigare il riscaldamento globale.
Anche l’idea del protezionismo da parte dei paesi ricchi, il fai-da-te che porterebbe a ridurre il commercio internazionale, non può funzionare: lasciati a se stessi i paesi produttori più fragili dovrebbero affrontare nuova povertà e la crescita della disuguaglianza. Il loro indebitamento diventerebbe una mina vagante.
Il cantiere in cui tutti questi errori rischiano di essere messi alla prova è l’Africa. Il continente africano ha il potenziale per aumentare la sua produzione agricola, sia per gli investimenti di molte imprese private, sia per la presenza e il ruolo sociale di organizzazioni non governative che supportano il lavoro dei soggetti multilaterali. Ma questa opportunità può spingere i governi a uno sfruttamento estremo delle risorse, esponendo la regione a sua volta agli impatti dell’instabilità climatica.
Non resta quindi che la strada dell’intervento coordinato, che non metta da parte le preoccupazioni per il global warming e che non ne rallenti le azioni di contrasto.
Nella roadmap per rendere le filiere più resilienti, serve un impegno che veda i soggetti privati (le società che hanno il monopolio delle sementi e dei prodotti chimici per l’agricoltura, per esempio), i governi (sia quelli dei paesi produttori, di solito paesi a basso reddito e con una tenuta meno salda sul fronte degli obiettivi della decarbonizzazione, sia i paesi consumatori forti), le organizzazioni multilaterali (quelli deputate a far crescere la sicurezza alimentare e ad aiutare il terzo mondo) lavorare insieme.
Obiettivi? Più innovazione, suggerisce il Rapporto BCG-Quantis, con investimenti in sementi ad alta resa, colture alternative e tecnologie post-raccolta per ridurre gli sprechi; più agricoltura rigenerativa, con pratiche che migliorano la salute del suolo e proteggono acqua e biodiversità; più tecnologia predittiva, grazie a sensori nel terreno, satelliti e intelligenza artificiale per monitorare le coltivazioni e anticipare eventi estremi; maggiore diversificazione delle fonti e delle colture, per non dipendere da una manciata di Paesi o varietà, e logistiche più flessibili, con magazzini a energia solare e sistemi digitali per reagire in tempo reale alle crisi.
Fondamentale, inoltre, sbloccare nuove fonti di finanziamento per permettere agli agricoltori di innovare senza rischiare il tracollo, e attivare partnership a lungo termine tra imprese e fornitori per garantire stabilità, tracciabilità e sostenibilità lungo tutta la filiera.
Per tutto questo serve un piano d’azione. Senza dimenticare una “torre di controllo” – cosi la chiama il BCG – per gestire anche il rischio climatico che si manifesta all’improvviso. Chi ne prenderà la leadership?