Il Principe

di Leonardo Morlino

I compagni che sbagliavano e la violenza come azione politica

Voler realizzare politiche di cambiamento può comportare il ricorso alla violenza? Alcuni filosofi e analisti della politica sostengono di sì. Ma fino a dove ci si può spingere? E quali limiti può avere la protesta, anche violenta? Riflessioni sui "compagni che hanno sbagliato" e sulle regole democratiche

Leonardo Morlino

L’arresto in Francia di sette ricercati dalla polizia italiana a seguito di condanne per reati di terrorismo pone numerosi interrogativi, di fondo e più immediati. Tra le domande importanti che dovremmo porci, una in particolare sembra essere anche più immediatamente rilevante: la violenza è ancora un mezzo di azione politica?

Quando si tenta di rispondere, siamo subito portati a proporre diversi distinguo. Dal punto di vista di molti filosofi o studiosi di politica, a cominciare da Michael Walzer nel volume Azione politica, appena pubblicato in italiano dalla Luiss University Press, alla fine voler realizzare politiche di cambiamento può comportare il ricorso alla violenza, anche in modi contorti e strumentali. Se, poi, ci rifacciamo ad autori passati, vi è solo un imbarazzante ‘embarras de choix’ nello scegliere autori e tra essi anche diversi storici che hanno sostenuto che solo il ricorso a forme violente, rivoluzionarie, può portare a cambiamenti effettivi.  

A questo possiamo aggiungere che proprio negli ultimi anni, specie dopo l’inizio della Grande Recessione (2008), la protesta non solo è stata al centro della politica di diversi paesi, anche europei, ma è stata anche la forma di azione politica che ha dato i risultati più efficaci sul piano delle politiche realizzate, trasformandosi solo in qualche caso e solo in certi paesi in istituzioni partitiche che hanno partecipato ad elezioni. Da questo punto di vista, si è dimostrata più efficace dell’azione degli stessi partiti di sinistra, anche radicale, per i quali emarginazione e alienazione dei potenziali sostenitori sono stati prevalenti, e alla fine politicamente inefficaci. 

E allora come ne usciamo? Come rispondiamo alla domanda posta all’inizio? Il primo punto da fissare è che la scelta sull’ammettere o no la violenza rimane comunque relativa, e contingente. Ovvero la violenza non è ammissibile come mezzo di azione politica se siamo in un regime democratico, caratterizzato da primato della legge e una magistratura indipendente. E questo comporta che tutti gli attori potenzialmente o effettivamente in gioco accettino le regole democratiche esistenti che devono essere ritenute legittime. Se la situazione politica degenera, se non siamo in un regime democratico, l’analisi ci porterebbe in tutt’altra direzione. 

Però, abbiamo detto sopra che la protesta si è dimostrata la forma più efficace di azione politica. E allora? Questo è il secondo punto da fissare: dimostrazioni, scioperi, sit-in o altre manifestazioni, mantenute entro la legalità o ai limiti della legalità, devono essere pienamente accettabili e fanno pienamente parte delle azioni politiche possibili in qualsiasi democrazia. Proprio l’esperienza degli anni del terrorismo ha spinto tali azioni verso un’evidente evoluzione: dalla protesta non distinta dalla violenza (se è protesta, può essere solo violenta) alla protesta ben differenziata dalla violenza sulla base della legalità. Oggi, quindi, non è accettabile qualsiasi azione politica che si traduce in reati gravi o gravissimi come quelli di cui siamo stati testimoni anni fa. Chi non ha vivo il ricordo di che cosa successe il 16 marzo 1978 in via Fani verso le 9? Quella strage e altri episodi simili di violenza sono rimasti indelebilmente nella memoria collettiva degli italiani.

Vi è, però, anche un terzo punto che va ricordato: se si riflette sia sulla storia complessiva di quegli anni nei due paesi europei che hanno avuto episodi di terrorismo più evidenti, l’Italia e la Germania, sia che ci si riferisca alle storie molto travagliate di paesi dell’America Latina, come ad esempio Argentina, Cile o Colombia, la lezione di fondo sembra sempre la stessa: il miglioramento delle condizioni di poveri ed emarginati ovvero l’attenuazione delle disuguaglianze non è facilitata dal ricorso ad azioni violente e tanto meno al terrorismo. Quei mezzi hanno sempre portato a risultati opposti. In questa prospettiva è opportuno ricordare che quello che sembra il meglio è nemico del bene.