L'Egitto, il caso Regeni e la voglia di illudersi
Leonardo Morlino
MORLINO

In questi ultimi anni pochi casi di cronaca sono stati tanto coperti da falsa retorica e voglia di illudersi quanto quello dell’assassinio in Egitto del giovane ricercatore italiano, Giulio Regeni. Qui mettiamo da parte qualche responsabilità morale del supervisor di Regeni. Con il senno del poi è troppo facile parlare e criticare. In realtà, potremmo mettere da parte anche la notizia che occupa i quotidiani in questi giorni, il ritorno dell’ambasciatore italiano a Il Cairo. Senza negarne l’importanza, non solo formale, non è questo il punto essenziale: rapporti anche proficui con l’Egitto si possono avere con o senza ambasciatore, specie quando non vi è un apprezzabile presenza di italiani nel paese (ad oggi circa 5.000). Le domande reali da porsi sono: che cosa ha portato all’assassinio di Regeni e quali sono le conseguenze più rilevanti per noi?

Dal momento del colpo di stato militare ai primi di luglio 2013 il problema principale di Al Sisi e il gruppo di militari intorno a lui è quello di consolidarsi al potere. Come mai? Il golpe interveniva in un contesto politico di ampia mobilitazione popolare, di partecipazione di importanti settori della società, anche se in larga misura non democratici. Dunque, occorreva smobilitare, ridurre alla passività, reprimere, eliminare le potenziali sacche sociali che avrebbero potuto dare sostegno a movimenti politici di opposizione. Anche avendo in mente l’esempio tunisino e il ruolo dei sindacati nella transizione alla democrazia in quel paese, tra i gruppi potenzialmente più pericolosi e ai quali era opportuno che polizia e intelligence rivolgessero più attenzione vi erano quelli che Regeni studiava. Il risultato è la sparizione, uccisione di qualche migliaio di persone, anche se qualsiasi stima sul numero delle sparizioni è del tutto aleatoria in un paese in cui non esiste alcuna tradizione di difesa dei diritti umani dei prigionieri. Se si aggiunge una sorta di competizione interna tra corpi dello Stato tra raggiunge migliori risultati nell’attività repressiva si capisce che cosa è successo. Dunque, le responsabilità sono ben chiare e i nomi specifici noti ad Al Sisi ed altri leader egiziani. Ovviamente, con una magistratura non indipendente non sapremo mai chi ha ucciso Regeni.

Questa vicenda ci dice che il regime militare egiziano è consolidato, ma per ragioni diverse – compreso il potenziale ruolo di rinnovata attivazione dei Fratelli Musulmani – è essenziale per i suoi leaders continuare sia nella repressione dei propri cittadini che nell’ignorare qualunque regola dello Stato di diritto. Questa è un’esperienza già fatta da diversi paesi latino-americani e che, una volta finita la Guerra Fredda e minaccia sovietica, ha portato gli USA a non sostenerli più. Però, ignorare le regole basilari di uno Stato di diritto non fa molto male solo a cittadini innocenti, anche stranieri, ma anche agli affari. In caso di conflitto di qualsiasi tipo non si potrà né contare sulla magistratura né sulla politica, se non ricorrendo a pratiche illegali.

In questo contesto siamo sicuri che la formale regolarizzazione dei rapporti diplomatici sia la strada giusta, o siamo di fronte a una “ragion di Stato” mal intesa, che ignora le caratteristiche interne di quel regime militare? Credo che qualsiasi imprenditore prima di mettersi in affari con qualche interlocutore egiziano dovrebbe pensarci due volte. Meglio, se più di due, e poi non farne nulla.