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Valutazioni sul rischio emittente dell'intermediario: cenni al caso Lehman Brothers

La valutazione del rischio da parte degli operatori finanziari costituisce una problematica giuridica per gli obblighi informativi nei confronti degli investitori. La sentenza della Corte d’Appello di Torino (10 giugno 2014), con riferimento alla vicenda relativa al fallimento Lehman Brothers, ha stabilito che l’obbligo di monitorare in via periodica e continuativa i mutamenti di rischiosità dei titoli detenuti dai propri clienti in capo all’intermediario è insussistente da un punto di vista regolamentare e non possa essere ricondotto neanche a violazioni dell’obbligo di eseguire in buona fede le disposizioni contrattualmente previste.

Vittorio Mirra
Mirra

L’acquisto di obbligazioni corporate da parte di numerosi risparmiatori e le conseguenti ingenti perdite patrimoniali che possono derivare dai dissesti finanziari dell’emittente rappresentano un esempio eclatante della stagione di “turbolenza” dei rapporti tra intermediari e investitori che si è acuita con la recente crisi economico-finanziaria che ha coinvolto i mercati finanziari (e non solo) di tutto il mondo.

Sulle ragioni della crisi sono stati scritti fiumi di inchiostro, ma la principale problematica affrontata nei vari filoni giurisprudenziali che hanno caratterizzato gli ultimi anni è rappresentata dalla natura e dall’estensione degli obblighi informativi cui sono tenuti gli intermediari ai sensi di legge. Vicende come quella relativa al crack finanziario di Lehman Brothers, l’acquisto di bond argentini, i crack Cirio e Parmalat sono i casi più eclatanti. Più in particolare, il tema della validità dei contratti di sottoscrizione di obbligazioni corporate e delle potenziali responsabilità delle banche collocatrici è stato oggetto di numerose pronunce giurisprudenziali; tra le più recenti e significative si segnalano senz’altro quelle relative al caso Lehman Brothers.

L’informazione nell’ambito della prestazione dei servizi e delle attività di investimento è riconosciuta quale elemento essenziale nei rapporti negoziali tra intermediario e cliente. L’evoluzione della normativa, anche su spinta di matrice comunitaria, ha accentuato progressivamente i profili di tutela del c.d. contraente debole, cercando di compensare le fisiologiche asimmetrie informative tra il cliente e l’intermediario abilitato (Roppo, 2009). Talvolta il diritto – adottando un approccio paternalistico – cerca di operare delle forme di “compensazione sociale” per riequilibrare le posizioni negoziali operando delle “forzature” che travalicano valutazioni di puro diritto per sfociare in una diversa distribuzione del rischio finanziario originariamente assunto dall’investitore (Pellegrini, 2010).

Una delle principali questio iuris si focalizza sulla valutazione dell’esistenza di un obbligo dell’intermediario di monitorare in via periodica e continuativa i mutamenti di rischiosità dei titoli detenuti dai propri clienti, nonché sulla valutazione della possibilità che lo stesso intermediario (con specifico riferimento ai titoli Lehman Brothers), sfruttando la propria (presunta) posizione privilegiata, avesse potuto conoscere le problematiche dell’emittente anche prima della dichiarazione di default di quest’ultimo.

Il Tribunale di Torino (sentenza 10 giugno 2014) ha stabilito che tale obbligo continuativo in capo all’intermediario è insussistente da un punto di vista regolamentare (sia con riferimento al Regolamento Intermediari in vigore nel 2007, sia con riferimento a quello a tutt’oggi applicabile) e non possa essere ricondotto neanche a violazioni dell’obbligo di eseguire in buona fede le disposizioni contrattualmente previste. Questa visione fortemente ancorata al dato normativo-regolamentare evita di agevolare quelle soluzioni di “compensazione sociale” che cercano di tutelare il risparmiatore, distribuendo il rischio a sfavore del soggetto con la maggiore solvibilità e con una posizione di privilegio sul mercato finanziario.

Il dovere di diligenza deve essere parametrato alla figura professionale interessata: la diligenza posta a carico del professionista (i.e. l’intermediario) ha natura tecnica e deve essere valutata tenendo conto dei rischi tipici della sfera professionale di riferimento ed assumendo quindi come parametro – nel caso di specie – la figura dell’ “accorto banchiere” (rectius: intermediario). È su questa diligenza che si fonda il legittimo affidamento dell’investitore nel momento in cui sottoscrive il contratto di investimento (Parrella, 2012).

Sebbene il dovere di diligenza in capo ad un soggetto specializzato, come può essere un intermediario finanziario, sia logicamente più estesa di quella di un singolo investitore, tale dovere non può però travalicare il limite della ragionevolezza, avendo in considerazione anche la disponibilità delle informazioni in capo all’intermediario. In definitiva, può concludersi che la banca non possa considerarsi ex se in una posizione privilegiata in merito alle informazioni sul rating dei titoli inclusi nei portafogli dei clienti, non potendo vantare alcuna “rendita informativa” nei confronti delle agenzie di rating. Prima della notizia del default di Lehman Brothers, dunque, non essendoci stata nessuna alterazione del rating delle obbligazioni in questione, nulla può essere addebitato all’intermediario, poiché non vi erano elementi oggettivi sui quali poter basare una previsione (perché precedente all’abbassamento del rating del titolo) di scarsa affidabilità dell’emittente.

Non mancano i casi in cui la responsabilità dell’intermediario è stata alquanto “forzata”, dando per scontati degli elementi dei quali non vi era alcuna prova concreta sulla quale fondare una decisione avversa all’intermediario. Esemplificando, si può agevolmente notare che, laddove si afferma che “è […] vero che la situazione critica dell’economia statunitense ed in particolare delle banche americane quantomeno dall’estate 2008 era nota e ciononostante il rating non era mutato né il titolo era stato escluso dall’elenco di cui sopra; appare dunque evidente come gli elementi riportati non possono sempre considerarsi indice di assoluta sicurezza del titolo e soprattutto come, in ogni caso, come già si è detto, l’ottimo rating e l’inserimento nell’elenco non esonerino l’intermediario dal fornire precise informazioni, di cui era senz’altro in possesso, concernenti la tipologia del titolo offerto all’investitore e la variazione qualitativa del rischio non ricollegato affatto alla semplice più lunga scadenza del titolo, ma proprio alla natura dell’emittente”, si dimentica che i rumors riportati dalla stampa (gli unici senz’altro rinvenibili come indici di pericolosità del titolo prima del default di Lehman Brothers) non possono essere considerati come elementi per fondare un giudizio definitivo sulla particolare rischiosità dell’investimento. Di altre informazioni non si può avere la certezza (“senz’altro in possesso”).

La discrezionalità nel considerare i menzionati rumors come indici di aumento del rischio del titolo, “con conseguente passaggio del titolo dall’area del basso rischio ad un livello di rischio significativo”, potrebbe difatti creare notevoli problematiche relative alle differenze di trattamento ed alla ragionevolezza delle differenziazioni. In sostanza, potrebbe non essere assicurata una omogeneità di valutazioni, ledendo ulteriormente la certezza del diritto e la parità di trattamento operata dagli operatori.

Appare dunque apodittico stabilire, in un caso simile, che “la banca intermediaria non poteva, infatti, non essere a conoscenza della situazione di difficoltà dell’emittente il quale, già nell’agosto del 2007, aveva licenziato circa 1200 dipendenti, registrando una perdita di 25 milioni di dollari ed una riduzione dell’avviamento di circa 27 milioni di dollari”, non essendovi la prova della disponibilità di informazioni (evidentemente non pubbliche) sul rischio emittente.

In sostanza, non vi è convergenza di idee sugli indicatori di rischio da utilizzare per valutare la affidabilità dei titoli emessi da un emittente. Nella pratica ci si affida usualmente ad un consulente tecnico; tale dato conferma la difficoltà di valutazione da parte degli organi giudicanti, ma non può giustificare delle “manovre” di allargamento della responsabilità degli intermediari che non trovano conforto a livello legislativo (anche se tali “manovre” si identificano in quella parte della giurisprudenza che, privilegiando la “parte debole”, penalizza gli intermediari, soggetti notoriamente maggiormente solvibili e storicamente meno esposti al rischio fallimento: c.d. “too big to fail”).

Una valutazione accorta e che possa essere considerata compatibile con la diligenza richiesta all’accorto banchiere deve essere ancorata a dati oggettivi e non variabili soggettivamente e discrezionalmente.

Si può concludere, dunque, che valutazioni di natura “sociale” non possono “estendere” gli obblighi di legge oltre quanto formalmente disposto normativamente. Ulteriori obblighi rispetto a quelli derivanti dal Testo Unico della Finanza possono essere convenuti negozialmente e circoscritti a quanto espressamente negoziato tra le parti.

Pertanto non si potrà che concordare con le argomentazioni del Tribunale di Torino, che si allineano all’orientamento giurisprudenziale secondo il quale la permanenza di un rating rimasto invariato all’interno del margine di sicurezza sino ai giorni immediatamente antecedenti al default, nonché l’assoluta incertezza e impraticabilità di criteri di valutazione di rischio diversi dalla valutazione di rating, costituiscono circostanze sufficienti per ritenere che gli intermediari non fossero tenuti a cogliere tempestivamente il rischio di default delle obbligazioni Lehman Brothers al fine di informare i clienti per tempo.

La sussistenza di un c.d. obbligo di alert nei confronti dell’investitore che abbia ad oggetto l’andamento degli strumenti finanziari sarebbe “particolarmente ampio e gravoso e dai confini oggettivamente incerti”, confermando così l’impossibilità di rintracciare tale obbligo nella legislazione vigente (Cian, 2011; Nigro, 2013). Tutt’al più il concetto potrebbe essere “stressato” in vista della necessità di fornire al cliente una informazione adeguata, ma senza comunque poter giungere all’individuazione di una “rigida” obbligazione di natura continua e basata su ogni potenziale informazione dalla quale poter desumere un andamento negativo dei titoli in portafoglio ai clienti (Di Amato, 2008).

I ragionamenti sul punto devono considerare l’incertezza derivante dai parametri che l’intermediario dovrebbe utilizzare a tal fine; ciò crea una naturale arbitrarietà, che mal si concilierebbe con un obbligo di natura legale.

In verità, nulla vieta di assumere tale obbligo a livello negoziale; in tal caso però dovrà essere specificamente convenuto quale sia il contenuto di tale obbligazione, nonché i parametri e le modalità attraverso le quali l’intermediario debba effettuare tale obbligo in via continuativa nei confronti dei propri clienti. In mancanza di parametri ben delimitati, l’intermediario non potrà che esercitare la diligenza richiesta basandosi su dati certi e di natura pubblica.

Di conseguenza, l’invio dell’alert soltanto dopo la degradazione ufficiale del rating delle obbligazioni in questione appare conforme agli obblighi assunti, non potendosi richiedere comportamenti più “gravosi” né invocare una mancata diligenza dal punto di vista professionale.

 

 

 

 

ll presente contributo è frutto esclusivo delle opinioni personali dell’autore, che non impegnano in nessun modo l’Istituto di appartenenza (Consob)”.