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Una scelta impopolare: la mutualità misurata con criterio quantitativo

La riforma delle banche popolari introduce un indicatore quantitativo quale discriminante per regolare la possibilità di esercizio dell’attività creditizia per il modello «popolare» (sul punto l’intervento di Ferri su FCHub). Il metodo adottato, basato su un numero di sintesi (con individuazione non motivata), appare insufficiente a spiegare l’esigenza di una trasformazione delle banche popolari in società per azioni. È discutibile elevare un numero ad indicatore di adeguatezza della forma societaria laddove, per quanto la dimensione dell’attivo sia di sicuro un indicatore di complessità, non è il solo. Secondo il ragionamento del legislatore sembrerebbe quasi che la mutualità si manifesti appena sotto gli otto miliardi, per scomparire oltre questo limite.

Filippo Fiordiponti
Fiordiponti

Il decreto legge n. 3 di questo 2015, convertito nella legge n. 33 del 2015, ha modificato le regole di  accesso all’attività creditizia. Il legislatore ha affermato che una banca popolare non possiede la struttura societaria adeguata allo svolgimento dell’attività bancaria, quando la dimensione del suo attivo superi una determinata soglia. É l’immediata evidenza che si ricava dai commi 2bis e 2ter, inseriti nell’art. 29 tub dall’art. 1, d.l. n 3, 24 gennaio 2015, convertito nella l. n.33, 24 marzo 2015, dove si fissa in otto miliardi di euro il limite per l’attivo di una banca popolare ovvero del consolidato dell’eventuale gruppo di cui sia alla testa.

La decisione segna una svolta nel rapporto tra causa e forma societaria, adottando un indicatore quantitativo quale elemento discriminante per regolare la possibilità di esercizio dell’attività creditizia per il modello «popolare» e affermando che i caratteri organizzativi e funzionali della spa sono i soli adeguati per una banca con attivo superiore alla misura indicata. Occorre però subito aggiungere che la previsione dettata dall’art. 14 tub è rimasta invariata – almeno per questi aspetti e in attesa del decreto legislativo di recepimento della direttiva n. 36 del 2013 – e restano perciò ammesse all’esercizio dell’attività bancaria sia le spa, che le società cooperative per azioni a responsabilità limitata. La riforma incide in quest’ultimo ambito e se non interviene sulle banche di credito cooperativo, che, come noto, appartengono alla famiglia delle cooperative tradizionali, cioè a piena mutualità, lo fa invece per le banche popolari, che non possiedono i caratteri definiti all’art. 2514 c.c. e perseguono una mutualità non prevalente.

Il profilo dello scambio mutualistico senza prevalenza continua ad essere regolato all’art. 28, c. 2bis, tub,  «ai fini delle disposizioni fiscali» e all’art. 150 tub, che, escludendo l’applicabilità delle norme previste per le società cooperative a mutualità piena, conferma la possibile convivenza con lo scopo di lucro. É così che gli obiettivi solidaristici sono perseguiti attraverso un’azione aperta all’esterno, che non conosce il vincolo di servizio in favore dei soci, e si traduce in un’operatività analoga a quella di una spa, che viene poi colorata con una vocazione al localismo ovvero verso alcuni segmenti di clientela, come famiglie e PMI, o ancora nell’ambito di una visione d’impresa tradotta in vincoli di statuto.

Sono caratteri enucleati dalla ricerca di una tipicità, tesa ad integrare i principi affermati dall’art. 45  Cost., pur connettendosi con un esercizio del credito a tutto campo, ma che alla fine non si è mancato di rinvenire nelle stesse regole che presiedono la forma cooperativa. Un vero e proprio caso di forma autocefala che si trasforma in causa per alimentare se stessa.

L’intervento di riforma svolge una valutazione nuova e di segno inverso rispetto al passato, con una  lettura che muove dall’osservazione empirica, per constatare che una regolazione legata all’elemento personale non si presta ad un’azione efficace e trasparente sul mercato dei capitali. Nell’acceso dibattito che si è aperto all’indomani dell’emanazione del provvedimento d’urgenza non è mancato chi ha sottolineato il virtuoso andamento del segmento delle popolari, rilevando in particolare l’incremento del numero di sportelli bancari e di dipendenti, registrato negli ultimi anni in controtendenza rispetto al sistema creditizio nazionale. In proposito occorre però aggiungere che questi sono sì, indicatori degli investimenti effettuati, cui è però necessario connettere adeguati risultati economici. Questi invece  subiscono gli effetti dell’incidenza dei crediti di dubbia esigibilità sul totale dei crediti verso clientela, mostrando un rapporto peggiore di circa tre punti percentuali rispetto al sistema (dati dell’anno 2013, nel Focus 2015 di Mediobanca). Non sembra perciò sostenibile la tesi di una maggiore efficienza operativa delle popolari, forte di un più solido legame con il territorio, vuoi per capillarità e intensità di presenza, vuoi per l’ampiezza della base sociale. Al contrario il dato segnala la difficoltà di perseguire con efficacia l’interesse societario – e di sistema – alla qualità del credito, selezionando in modo adeguato la domanda di sostegno creditizio.

Considerazioni che si riflettono sulle esigenze di stabilità del sistema creditizio, che le autorità di  vigilanza devono assicurare e si sommano alle criticità che pure sono emerse in ordine alla funzionalità della governance delle popolari, che si è dimostrata spesso inadeguata rispetto alla necessità di scelte  tempestive e trasparenti.

La scelta che il legislatore ha ora effettuata – a prescindere qui dagli aspetti legati all’uso della  decretazione d’urgenza – si indirizza sulle dimensioni rilevanti, introducendo una nozione di mutualità modellata su questo canone, che esula da ulteriori indagini sulla natura degli scopi perseguiti. Come dire che il peso delle attività detenute – questo il profilo da misurare – non ammette altra distinzione, né  specificità operativa ed impone la forma societaria.

La riforma svolge una valutazione del concorso tra scopi della cooperazione e regole di controllo del  credito, che postula la modifica della causa stessa del contratto sociale, espellendo definitivamente ogni residua mutualità. D’altronde la relazione accompagnatoria alla conversione in legge del decreto è esplicita, definendo il modello della banca popolare «in sé astrattamente privo di sostanza mutualistica»,  mentre il mutato quadro normativo, conseguente alle decisioni assunte in sede comunitaria, impone di adottare forme organizzative capaci di garantire «un’efficace forma di governo e un’elevata capacità di finanziamento delle banche». Le criticità da tempo al centro del dibattito in materia vengono così risolte con una sorta di certificazione di assenza dello scopo mutualistico, che però, legata al criterio indicato, non si estende all’intera categoria.

La questione ruota intorno ad un numero, elevato ad indicatore di adeguatezza della forma societaria.  É un metodo che si ispira – viene dichiarato esplicitamente – al Meccanismo di Vigilanza Unico, cioè il primo pilastro dell’Unione bancaria, che configura l’esercizio congiunto, dal novembre 2014, di compiti e poteri di vigilanza sulle banche da parte della Banca centrale europea e delle autorità di vigilanza dei Paesi dell’eurozona. La BCE vigila direttamente le banche c.d. significative, ma il valore individuato per tracciare il perimetro della sua azione, trenta miliardi, è ben diverso da quello indicato nel nostro caso dal legislatore nazionale ed è inserito in un’ ampia casistica di situazioni rilevanti per il Meccanismo. Gli obiettivi della previsione sono inoltre del tutto diversi, il MVU svolge funzioni di vigilanza prudenziale e deve modulare con proporzionalità la sua azione, il decreto invece determina il presupposto per individuare una discriminante nell’esercizio dell’attività creditizia. In assenza di altri indicatori – non viene fatto riferimento alla quotazione, né alla diffusione della presenza territoriale o ad alcun altro aspetto, che potrebbe concorrere a determinare la rilevanza economica della banca – si deve concludere che quel numero è considerato capace di operare la distinzione, anche se avulso da ogni altra considerazione. Il ricorso allo stesso indicatore scelto dal MVU, di fatto avrebbe escluso un paio di  banche quotate, incluse invece nel perimetro a otto miliardi. Sembra così questa la considerazione empirica che ha condotto a definire quella soglia, portando con sé anche qualche popolare non quotata.

A ben vedere la dimensione dell’attivo è certamente un indicatore di complessità, ma non il solo e il  metodo adottato, basato su un numero di sintesi – oltretutto con individuazione non motivata -, appare insufficiente a spiegare l’esigenza di una trasformazione. É ovvio che in questo modo anche una lieve differenza di valori e/o di valutazioni è resa idonea a segnare il confine tra i due modelli societari e sembra difficile considerare che la mutualità si manifesti appena sotto gli otto miliardi, per scomparire aldilà del muro.

Lo stop dimensionale sommato alle ulteriori modificazioni delle norme ordinatorie del comparto non  cancella la categoria – o meglio quel che ne resterà dopo l’uscita delle banche maggiori -, al contrario mantenendo una sua disciplina positiva, ne conferma la causa mutualistica. É soltanto la misura descritta ad introdurre una sorta di eccesso di prevalenza del lucro, ma se l’insufficienza strutturale rilevata è tale da ostacolare una governance efficace e la stessa possibilità di reperire finanziamenti adeguati, a ben vedere è quella forma a mostrarsi incapace di rispettare le regole di settore. Una difficoltà che sembra allora comune al gruppo, mentre le dimensioni possono solo indicare il peso di alcuni istituti e il conseguente impatto che il loro equilibrio può avere sulla complessiva stabilità del sistema. Si tratta di un aspetto di scala, certamente centrale in ottica di vigilanza e controllo, ma sul piano sistematico introduce una discriminante, che non risolve le criticità strutturali denunciate.

Per effetto del ricordato art. 29, comma 2ter, tub, agli organi amministrativi della banca è lasciata la  scelta tra la riconduzione dell’attivo al disotto della soglia, la liquidazione e la trasformazione in spa, con rinvio alle previsioni dell’art. 31 tub., nella sua versione novellata. La possibilità di trasformazione in spa era sinora rimessa all’autonoma iniziativa della banca e sottoposta all’autorizzazione della Banca d’Italia. Di quest’ultima non c’è più traccia, mentre le finalità di vigilanza, che dovevano motivarla, sono assorbite da una previsione, che apre alla generale possibilità di trasformazione. É confermato il rinvio agli artt. 56 e 57 tub per l’accertamento dei criteri di sana e prudente gestione da parte di Banca d’Italia sia in ipotesi di modificazioni statutarie, che di fusione e scissione.

La discrezionalità assembleare, al superamento del fatidico sbarramento, è però costretta a confrontarsi  con l’obbligo di operare una scelta, priva di vera alternativa, se non a rischio di esporsi ad operazioni di grande impatto, condotte sotto la spinta di termini cogenti. Il d.l., n. 3 del 2015, oltretutto interviene sui quorum costitutivi e deliberativi, sottraendoli agli statuti e fissandoli ex lege su livelli così ridotti, che in seconda convocazione si potrà deliberare «[…] qualunque sia il numero dei soci intervenuti in assemblea». L’autonomia statutaria ne risulta mutilata in favore di un’agilità dell’organo assembleare, che appare svincolata da ogni preoccupazione partecipativa e squilibrata verso la facilità di decisione, anche a scapito delle minoranze. D’altronde la relazione accompagnatoria dichiara esplicitamente che i «quorum […] specifici» sono introdotti «per agevolare» il processo di trasformazione. Un obiettivo che, in verità, si proponeva anche la versione previgente della norma, che già derogava alle regole dettate dall’art. 2545 decies c.c., ma ora si vuole superare il «sostanziale potere di veto di minoranze organizzate». Il percorso che avvia alla trasformazione della banca popolare, è guidato dalla preoccupazione di raggiungere il risultato, anche con sacrificio della partecipazione assembleare, indebolendo la tenuta della struttura societaria in favore del cambiamento di forma. La previsione non riguarda soltanto le  banche oltre soglia, ma ha carattere generale e lascia così più di una perplessità in ordine allo squilibrio che si genera per effetto della ulteriore compressione delle tutele che si è descritta.

A maggior ragione al socio, che vede mutare struttura e scopo del soggetto economico di cui è partecipe,  senza condividere la scelta, occorre garantire adeguata difesa attraverso la facoltà di recesso, anche se nelle banche popolari quotate la cessione dei titoli in Borsa è il meccanismo di uscita più diretto. É una tutela che la riforma conferma in modo formale, subordinando però il diritto al rimborso delle azioni e/o degli altri strumenti di capitale, per effetto del comma 2ter inserito nell’art. 28 tub, alla qualità del capitale della banca, secondo le indicazioni che fornirà la Banca d’Italia. Quindi all’esercizio del recesso non fa seguito la liquidazione dell’investimento, secondo le modalità regolate in via generale per le società cooperative, ma sorge un credito condizionato al rispetto dei requisiti patrimoniali della banca.

La relazione accompagnatoria al provvedimento spiega che si tratta di un’anticipazione rispetto al recepimento della direttiva n. 36 del 2013 (Capital Requirements Directive, c.d. CRD IV). La direttiva si propone, tra l’altro: «il coordinamento delle disposizioni nazionali relative all’accesso all’attività degli enti creditizi e delle imprese di investimento, le modalità della loro governance e il quadro di vigilanza» (cfr. 2° considerando). Nello schema di decreto legislativo di recepimento, trasmesso al Senato per l’esame delle competenti Commissioni l’11 febbraio 2015, si può leggere un comma 2quater, che si aggiunge al  medesimo art. 28 tub, per disciplinare, in tutte le banche con forma cooperativa, il diritto di rimborso delle azioni in caso di recesso «anche a seguito di trasformazione, morte o esclusione del socio». Se il nostro decreto legge si rivolge alle sole banche popolari, il decreto legislativo guarda alla forma  cooperativa nel suo insieme.

É ancora la relazione accompagnatoria a sostenere che si contempera l’aspettativa del socio al rimborso  con le esigenze di stabilità della banca, perché si incide «esclusivamente sull’entità e sui tempi del rimborso». Questo riferimento riprende la formula utilizzata all’art. 10, par. 2, del Reg. delegato, Commissione Europea, n. 241 del 2014, in tema di requisiti dei fondi propri per le società cooperative  ed altri enti, che nel rinvio e nella limitazione dell’importo del rimborso ha individuato le modalità per anteporre il rispetto dei criteri prudenziali al diritto del socio recedente. La norma, unitamente al successivo art. 11, che attribuisce all’autorità competente potere d’intervento, per limitare ulteriormente  il diritto di rimborso degli strumenti di capitale, quando siano giudicati insufficienti i presidi di natura contrattuale o normativa, va a modificare la configurazione dei fondi propri del soggetto cooperativo, per ottenere pieno rispetto delle regole prudenziali.

La definizione dei caratteri di un capitale classificato di qualità primaria, secondo le regole adottate in  chiave di vigilanza prudenziale del sistema creditizio, si ha già con gli accordi di Basilea III, che li ha identificati con la «Permanenza illimitata dei fondi direttamente a disposizione dell’emittente: nessuna scadenza predefinita, nessuna aspettativa di rimborso anticipato» e con la «Massima subordinazione in caso di liquidazione». Se quindi la nozione di capitale sociale, propria della forma cooperativa, è ancora dettata dall’art. 2511 c.c., dove la variabilità è connessa alla struttura societaria di contenuto mutualistico, nel mondo del credito quello stesso capitale acquista una diversa centralità, per obbedire ai medesimi coefficienti patrimoniali, che vengono richiesti per le spa.

In altre parole deve acquisire carattere di stabilità e di totale subordinazione rispetto alle ragioni dei  creditori, perché possa essere considerato nel core tier 1. É una destinazione funzionale di settore, progressivamente realizzata per mano del legislatore comunitario, che ne ha forzato la connotazione tipica. Ora si agisce sulla possibilità di exit del socio, con l’effetto di derubricare ancora i contenuti  mutualistici. Da un lato infatti si rende inapplicabile per le banche popolari il primo comma dell’art. 2530 c.c., liberando il socio dalla necessità di ottenere autorizzazione alla cessione, dall’altro l’esercizio del diritto di recesso, dove l’art. 2532 c.c. continua ad applicarsi, è gravato dall’esigenza di non avere negativi riflessi sul core tier 1. Come si vede la ricerca di stabilità del sistema creditizio prevale sul diritto  individuale del socio.

È in primo luogo alla banca emittente che le disposizioni comunitarie attribuiscono «la capacità di  limitare il rimborso», assegnando all’autorità di controllo il compito di verificarne l’appropriatezza e di introdurre eventuali ulteriori limiti. La trasposizione nel tub rinvia così ad una regolamentazione della Banca centrale, legata ad un intervento «laddove ciò sia necessario per assicurare la computabilità […]», che rafforza il ruolo della normativa di secondo livello, individuata come fonte diretta della limitazione al diritto di rimborso.

L’attenzione non va al profilo soggettivo del socio o del detentore di altri strumenti di capitale, per  preoccuparsi soltanto della «computabilità […] nel patrimonio di vigilanza primaria». É però lo statuto del socio e/o del detentore di altri strumenti di capitale a modificarsi, subendo la contrazione degli spazi di tutela per i suoi diritti patrimoniali. Sin qui le regole – segnatamente l’art. 2532 c.c. – si preoccupavano di scindere gli effetti del recesso sul rapporto sociale da quelli sui rapporti mutualistici, posticipati alla chiusura dell’esercizio, in coerenza con l’esigenza di salvaguardare quegli stessi obiettivi solidaristici, che sono al centro della funzione cooperativa. Ora si sovrappone un’altra priorità di sistema, che è appunto il rispetto dei requisiti patrimoniali, presupposto all’esercizio dell’attività creditizia. Ne risulta ampliata la sfera della responsabilità patrimoniale del socio e/o dell’investitore non più riferibile al solo risultato economico dell’azienda, bensì direttamente subordinata anche alle regole di stabilità. Combinando poi il nuovo assetto con una trasformazione di necessità, quale dovrà affrontare la banca oltre soglia, si ottiene  un socio ovvero un investitore, che, senza assentire in alcun modo, può vedere il suo investimento partecipare delle sorti di un soggetto economico ben diverso da quello originario. In una banca quotata il soggetto interessato avrà l’alternativa di rivolgersi al mercato, altrimenti, come si è visto, potrà trovarsi nella condizione di sopportare importanti limitazioni ai suoi diritti patrimoniali.

Alla modificazione del patto sociale viene infatti a sommarsi, per volontà del regolatore, una  subordinazione nuova, che ha diretta incidenza nella sfera economica del socio, dove le prerogative del suo diritto di proprietà incontrano una funzione sociale ulteriore, legata al collettivo interesse al buon andamento del settore creditizio.