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Società a Partecipazione Pubblica: come ridurne i costi

Le società partecipate svolgono un ruolo importante e necessario per lo svolgimento delle attività degli enti locali, ma la loro costituzione deve essere spinta da criteri di efficienza. L’esistenza di molte partecipate inattive, o di partecipate senza dipendenti e con solo la presenza di amministratori, mina non solo il buon senso, ma anche l’efficienza della Pubblica Amministrazione e in senso indiretto i contributi dei cittadini per un servizio carente. In tal senso il decreto legislativo 175, entrato in vigore il 23 Settembre 2016, si inserisce all’interno di un nuovo processo di riforma della Pubblica Amministrazione. Una delle principali novità del Testo Unico per le Società a Partecipazione Pubblica è quella riportata nell’articolo 20 dove viene prevista e richiesta una “razionalizzazione periodica delle partecipazioni pubbliche”. Le amministrazioni pubbliche, ogni anno, dovranno effettuare un’analisi dell’assetto complessivo delle società.

Maria Chiara Vietti

In base al decreto legislativo 175, entrato in vigore il 23 Settembre 2016, non sarà più possibile detenere partecipazioni in:

  1. società che non svolgano attività di cui all’articolo 4 del Decreto (società create per il perseguimento dei fini istituzionali ecc..);
  2. società che non abbiano dipendenti o che abbiano amministratori superiori al numero dei dipendenti;
  3. società che svolgano le medesime attività di società già partecipate;
  4. società che nei 3 anni precedenti non abbiano conseguito un fatturato medio superiore ad 1 milione;
  5. società diverse che abbiano chiuso in perdita nei 5 esercizi precedenti.

In questo modo verranno a ridursi il numero di società partecipate ed anche i relativi costi per la loro gestione. Sembra assurdo che il legislatore abbia dovuto prevedere una norma specifica per l’eliminazione di società inattive o di società “doppioni”, in perdita da molti esercizi. Ma quando si parla di res publica si parla di un qualcosa di difficile gestione poiché entrano, purtroppo, in gioco elementi politici e giochi di potere sconosciuti     ai più e che spesso minano l’efficienza gestionale.

Il legislatore ha deciso con una norma ben specifica di eliminare i potenziali “pericoli” di inefficienza indirizzando il presente decreto verso una necessaria riduzione di costi.

In questo senso, un’importante novità è contenuta al comma 9 dell’articolo 20 del D.l. 175/2016, poiché, entro un anno dall’entrata in vigore del decreto, vengono cancellate d’ufficio dal registro delle imprese tutte le società che, per 3 anni consecutivi, non abbiano depositato il bilancio d’esercizio o che non abbiano compiuto atti gestori. Prima di procederne alla cancellazione, però, viene comunicata agli amministratori/liquidatori la volontà di cancellazione, poiché essi potranno entro 60 giorni presentare formale e motivata domanda di prosecuzione. In caso di domanda regolare non si procederà alla cancellazione. Il difetto di questo tipo d’impostazione è che, però, venga data una regola e prevista al tempo stesso una deroga. Perché esistono ancora società che per tre esercizi non abbiano depositato il bilancio o che non abbiano svolto attività di gestione? Dando la possibilità agli amministratori di effettuare una domanda di prosecuzione dove si vuole arrivare? Può avere senso? Una società che per tre anni non ha svolto attività e che non presenta il bilancio può essere considerata una società inattiva e non le si dovrebbe dare la possibilità di proseguire, altrimenti si continua ad alimentare quel senso di prosecuzione all’inefficienza, figlio dei giorni passati e che questa nuova riforma dovrebbe tentare di eliminare.

La norma prevede sul punto che le amministrazioni pubbliche debbano effettuare ogni anno un’analisi dell’assetto complessivo delle società in cui detengono partecipazioni predisponendo un effettivo piano di riassetto. Nel caso sia necessario dovranno provvedere con fusioni, eliminazioni, liquidazioni di società. La novità effettiva, però, è relativa all’introduzione di un piano di riassetto da effettuarsi ogni esercizio e non solo talvolta. La legge precedente n. 190 del 2014 prevedeva, infatti, che le amministrazioni effettuassero una razionalizzazione delle partecipazioni senza segnalarne dei limiti temporali.

L’analisi sarà così annuale, periodica e le società a partecipazione pubblica non potranno sottrarsi dal predisporre il piano di riassetto previsto dal legislatore. Anche in questo caso la decisione del legislatore è stata chiara e necessaria poiché nell’ottica di riduzione degli sprechi e dei costi della pubblica amministrazione sarebbe inutile richiedere la predisposizione di un piano di razionalizzazione senza prevederne però la periodicità. La periodicità risulta così fondamentale per far comprendere che il cammino iniziato verso l’efficienza non è unicamente una fase temporanea, ma al contrario dovrà essere uno status che non si dovrà mai abbandonare. Tutte le norme successive dovranno andare in questo senso, senza lasciare nulla al caso o permettere delle vie di fuga.

Analizzando il Rapporto del Luglio 2014 del MEF (Dipartimento del Tesoro) sulle partecipazioni detenute dalle Amministrazioni Pubbliche al 31 dicembre 2012, si evidenzia che, ad esempio, su 8.092 comuni solo 4.013 sono quelli adempienti e che hanno fornito le informazioni in merito alle proprie società partecipate. Per tali motivazioni la strada intrapresa risulta ancora difficile e tortuosa. Non pare possibile che si riesca ad ottenere i dati di solo la metà delle amministrazioni pubbliche, soprattutto se si considerano tutte le richieste di trasparenza fatte loro e l’obbligo delle stesse di pubblicare i dati, i bilanci e le informazioni di carattere economico e finanziario direttamente sui rispettivi siti internet.

In ogni caso il legislatore prova a raggiungere l’efficienza nella Pubblica Amministrazione non solo relativamente al numero di partecipate pubbliche, ma anche nella composizione della governance al loro interno. È stato così previsto, dall’art. 11 del decreto in esame, di razionalizzare anche il Consiglio di Amministrazione ovvero:

  1. la riduzione del numero dei consiglieri del Cda,
  2. la riduzione dei compensi dei consiglieri del Cda,
  3. la scelta dei consiglieri del Cda sulla base di criteri di onorabilità, professionalità e indipendenza.

Per ciò che concerne la riduzione del numero dei consiglieri l’art. 11 al comma 2 disciplina: “l’organo amministrativo delle società a controllo pubblico è costituito, di norma, da un amministratore unico”. La decisione di un amministratore unico è una novità importante diversa persino dal Programma Cottarelli che prevedeva una situazione più attenuata. La regola si ribalta e di norma dovrà esservi un amministratore unico al posto del Cda. La possibilità di avere un amministratore unico è un elemento positivo di riduzione di costi ma deve essere sicuramente scelto con attenzione e dopo averne verificato adeguatamente i requisiti. Il problema di un unico amministratore potrebbe essere quello di non saper gestire autonomamente e con abilità una società. Pertanto anche in questo caso il legislatore lascia aperta la possibilità di una deroga, perché nei casi in cui lo richiedano ragioni di adeguatezza organizzativa, potrà essere previsto un Cda.

La deroga sembra opportuna poiché nei casi di grandi dimensioni non sarebbe possibile prevedere un unico amministratore; ciononostante bisognerà verificare che se ne faccia un uso adeguato per evitare che venga utilizzata anche quando non ce ne sia bisogno. Si attendono quindi i criteri attraverso cui verrà data la possibilità di costituire un Cda. Ci si auspica che il legislatore sia stringente e che preveda regole ferree per limitare tali casi, altrimenti non sarà coerente con l’obiettivo di riduzione dei costi della Pubblica Amministrazione.

Il combinato disposto di questo articolo con l’art. 20, dove si prevede che verranno eliminate le società con un numero di amministratori superiore al numero dei dipendenti, se eseguito con coerenza e senza deroghe, dovrebbe sicuramente portare ad una riduzione dei costi per le società a partecipazione pubblica.

Infine, nel caso in cui si voglia costituire una società partecipata pubblica, all’articolo 5 del Decreto Legislativo – Oneri di motivazione analitica e obblighi di dismissione – viene richiesto che se ne indichi necessariamente la motivazione e non solo, se ne giustifichi la costituzione anche dal punto di vista economico. In tal senso anche il programma Cottarelli aveva già previsto la necessità di valutare se fosse opportuna o meno la costituzione di una società sulla base dell’economicità dell’operazione. Il legislatore permette la costituzione di una società partecipata pubblica solo qualora ve ne sia effettivamente la necessità e questa venga giustificata da specifiche ragioni. In un decreto che va verso l’eliminazione, la fusione, la riduzione di società partecipate, si inserisce comunque la possibilità di crearne di nuove. Questo elemento risulta, però, fondamentale per sottolineare che d’ora in avanti non dovranno più essere costituite delle società senza valide ragioni economiche, ma al contrario la costituzione         di una partecipata pubblica dovrà sottostare a regole e soddisfare determinati criteri proprio per necessità di riduzione di costi, di efficienza e di efficacia.

Talvolta, leggendo le disposizioni del Legislatore, sembra alquanto assurdo e particolare che si siano dovute inserire delle norme per limitare o eliminare effettivamente dei casi di spreco e di inefficienza così evidenti. L’importante è che, anche se tardi, si agisca per il bene pubblico, per la buona gestione del sistema e delle risorse impiegate.

In conclusione il D.lgs. 175/2016 è effettivamente uno degli strumenti attraverso cui si cerca di risolvere i gravi problemi dell’amministrazione pubblica legati all’inefficienza, alle programmazioni antieconomiche e alla lentezza procedurale. Il cammino verso l’efficienza, la riduzione degli sprechi, l’efficacia e la buona gestione è molto lungo ma, forse per la prima volta, lo si è iniziato ad intraprendere.