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Se non lasci raddoppi

Il legislatore modifica il diritto di voto nelle società per azioni. Abbandona il principio one share, one vote e dà agli azionisti la facoltà di esprimere più voti. Ma le partecipazioni devono essere detenute per almeno due anni, senza interruzione. Eppure così strutturata la norma genera attriti tra i diversi soci. Che adesso spetta alla Consob dirimere.

Damiano Battistelli

Con il “Decreto Competitività 2014” (d.l. 24 giugno 2014, n. 91 convertito con modificazioni nella l. 11 agosto 2014, n. 116, di seguito “il Decreto”) sono state apportate, all’interno del codice civile e del d.lgs. 24 febbraio 1998, n.58 (di seguito Tuf), importanti modifiche in tema di diritto di voto nelle società per azioni. In particolare, sono state introdotte nel nostro ordinamento tipologie di azioni che attribuiscono la facoltà di esprimere più di un diritto di voto: si tratta della azioni a “voto plurimo”, previste per le S.p.A. non quotate (per le S.p.A. quotate, come vedremo più approfonditamente al successivo paragrafo 3, il Decreto vieta l’emissione di azioni plurime facendo però salve quelle sottoscritte precedentemente alla quotazione) e delle azioni a voto maggiorato (c.d. “loyalty shares”), previste per le S.p.A. quotate.

L’intervento del Governo determina dunque la definitiva scomparsa del principio cardine della democrazia finanziaria “un diritto, un voto”.

Attraverso l’integrale modifica del 4° comma dell’art. 2351 c.c., è riconosciuta alle S.p.A. non quotate la possibilità di emettere azioni a voto plurimo, consentendo a ciascun possessore di azione di tale categoria di esprimere fino ad un massimo di tre voti per ogni azione. Non è peraltro necessario che tali azioni permettano di esprimere fino a tre voti in ogni assemblea e per qualsiasi oggetto. Infatti, lo statuto può prevedere che il voto multiplo sia limitato a “particolari argomenti” (ad es. liquidazione, modifiche statutarie, nomina delle cariche sociali) oppure “subordinato al verificarsi di determinate condizioni” oggettive (ad es. il superamento di un certo numero di soci oppure perdite che si protraggono per due esercizi) e non rimesse alla mera potestà arbitraria di un organo sociale.

Peraltro, in sede di conversione, è stata introdotta una particolare previsione transitoria tesa a rendere più ragionata e meno istintiva, ma soprattutto condivisa ed avallata dalla maggioranza dei soci, l’introduzione negli statuti delle S.p.A. del voto plurimo. Infatti, per le S.p.A. iscritte nel registro delle imprese alla data del 31 agosto 2014, la delibera con cui si prevede l’emissione di azioni a voto plurimo deve essere adottata con il parere favorevole di almeno i due terzi dei soci rappresentati in assemblea. La norma prevede dunque una maggioranza più qualificata rispetto ai quorum previsti dall’art. 2368, commi 2 e 3, c.c., per le assemblee straordinarie convocate al fine di modificare gli atti costitutivi.

In forza dell’art. 2341, c.1, lett. g), è fatta comunque salva la possibilità, in capo ai soci che non hanno concorso alla delibera (assenti, contrari, astenuti), di esercitare il diritto di recesso.

Per le società quotate e in corso di quotazione, il Decreto ha inserito ex novo, all’interno del Tuf, l’art. 127-quinquies, rubricato “Maggiorazione del voto”, in virtù del quale, sulla scia di quanto già previsto da altri ordinamenti commerciali, sono introdotte nel nostro sistema le c.d. “loyalty shares”, ossia azioni che attribuiscono un diritto di voto multiplo a coloro che posseggono azioni della società per un determinato periodo di tempo. È bene subito precisare che le “loyalty shares” non raffigurano una nuova categoria di azioni, ma solo una clausola statutaria di attribuzione del diritto di voto alternativa al criterio “one share, one vote”, la cui efficacia prescinde  dalla categoria di azioni detenuta dal socio. È lo stesso art. 127-quinquies che, al c.5, prevede espressamente che tali azioni non costituiscono una categoria speciale di azioni ai sensi dell’art. 2348 c.c.. Tale statuizione va letta in combinato con il c.3 dello stesso articolo, il quale prevede il venir meno della facoltà del voto maggiorato nell’ipotesi di cessione a titolo oneroso o gratuito delle azioni. Se infatti fossero state “categorie speciali” di azioni, la loro circolazione non avrebbe determinato, salva diversa previsione dello statuto, l’estinzione del diritto di voto plurimo in esse incorporato.

Andando dunque ad analizzare nel dettaglio il testo del nuovo art. 127-quinquies, al c.1 è sancita la possibilità in capo alla società di prevedere, all’interno dello statuto, la possibilità di attribuire fino ad un massimo di due voti agli azionisti di lungo corso. Un sorta di “premio fedeltà” riconosciuto loro allorquando rimangano titolari delle azioni per un periodo “continuativo” non inferiore a 24 mesi dall’iscrizione nell’apposito elenco nel quale, ai sensi del successivo c.2, devono essere indicati i nominativi degli azionisti titolari di azioni a voto plurimo.

Sempre al c.1, è previsto che lo statuto possa prescrivere che il socio al quale compete la maggiorazione del voto vi possa rinunziare in tutto o in parte. Occorre però sottolineare che, a differenza di quanto visto in precedenza per le azioni a “voto plurimo”, il c.6 non riconosce ai soci che non hanno concorso alla delibera di modifica dello statuto la facoltà di esercizio del diritto di recesso ex art. 2437 c.c..

Al c.7, il legislatore ha disposto che la maggiorazione del voto non abbia invece effetto sui diritti diversi dal voto che il socio vanta in ragione del possesso di determinate aliquote di capitale. Volendo fare degli esempi, si pensi all’impugnazione della delibera assembleare (art. 2377 c.c.), al diritto di convocazione in assemblea (art. 2367 c.c.), all’azione di responsabilità nei confronti degli organi di amministrazione (art. 2393 c.c.), al diritto che il collegio sindacale indaghi su fatti ritenuti censurabili (art. 2408, c.2, c.c.).

Quanto invece alle azioni a “voto plurimo”, l’art. 127-sexies, introdotto anch’esso ex novo dal Decreto, da un lato, in deroga all’art. 2351, c.4, c.c., esclude per le società quotate la facoltà di emettere azioni a “voto plurimo”, dall’altro, al fine di mantenere invariato il rapporto tra le varie categorie di azioni esistenti, fa salve le caratteristiche ed i diritti delle azioni a “voto plurimo” già in circolazione anteriormente alla loro quotazione in un mercato regolamentato, consentendo comunque di emetterne di nuove con le medesime caratteristiche di quelle già in circolazione soltanto nei casi tassativamente indicati al c. 2, lett. a) e b), ovverosia: aumento di capitale gratuito, aumento di capitale a pagamento senza esclusione o limitazione del diritto di opzione, fusione o scissione.

L’abrogazione del principio dell’attribuzione del diritto di voto in misura proporzionale al numero di azioni possedute dal singolo socio, con la conseguente introduzione del voto multiplo (sia nella forma delle “loyality shares” sia nella forma delle categorie di azioni a “voto plurimo”), è da sempre oggetto di acceso dibattito in dottrina.

Coloro che osteggiano l’introduzione del voto multiplo ritengono che con tale strumento gli azionisti di riferimento possano maggiormente perseguire i loro interessi privati, aggravando il tipico problema di agency che implica il conflitto di interessi tra soci di maggioranza e soci di minoranza. In sostanza, il socio di maggioranza potrebbe prendere scelte opportunistiche eventualmente dannose per i soci di minoranza e per la società stessa. Inoltre, crescerebbe il rischio di incorrere in abusi di maggioranza attraverso l’impugnazione di delibere assembleari.

Tale criticità non sembra però essere la sola. Infatti, si pensi all’ipotesi di S.p.A. in fase di quotazione nelle quali uno o più soci fondatori mantengano la titolarità di azioni a voto plurimo. Un simile assetto verrebbe inevitabilmente a palesarsi nel momento dell’offerta pubblica iniziale (“Ipo”), con l’effetto che il prezzo della azioni da collocare sul mercato primario sconterebbe i rischi di un assetto societario con controllo a “leva”. Dunque, il socio fondatore potrebbe raccogliere sul mercato risorse inferiori a quelle che avrebbe potuto registrare con il principio “un azione, un voto”.

Se da un lato il voto plurimo presta il fianco a critiche, dall’altro è innegabile che porti con sé anche dei vantaggi in grado di conquistare il consenso di altra parte della dottrina.

Anzitutto, l’introduzione della facoltà statutaria di emettere “loyalty shares” permette di attrarre investimenti di lungo periodo, premiando i soci che non mirano solamente al “capital gain” nello “short term”. Così facendo, l’azionista sarà ancor più incentivato a partecipare proattivamente alla vita societaria al fine di accrescerne competitività (potendo monitorare con maggiore incisività il comportamento dei managers) e valore.

Lo strumento delle “loyality shares” permette inoltre una riduzione della volatilità dei corsi azionari e soprattutto, attraendo gli imprenditori che non vogliono diluire il controllo, consente di incoraggiare la quotazione delle medie imprese, posto che il “timore di perdere il controllo a seguito della quotazione rappresenta uno dei fattori principali che disincentiva l’ingresso in borsa dell’imprenditoria italiana”. Proprio con riferimento a tale ultimo aspetto, una maggiore flessibilità del capitale dipesa dall’introduzione nello statuto della “maggiorazione del voto” potrebbe (alla luce delle considerazioni di cui sopra, il condizionale è d’obbligo) incrementare la dimensione del capitale in sede di Ipo (quindi la liquidità della società) senza però che gli azionisti di riferimento incorrano, in sede assembleare, ad una compressione dei loro poteri. Quanto invece alle azioni a “voto plurimo”, queste consentono agli azionisti di controllo di diversificare il proprio portafoglio di investimenti ed inoltre permettono di agevolare gli aumenti di capitale migliorando così la cronica sottocapitalizzazione delle società italiane.

Volendo tirare le somme, se da un lato il voto plurimo rappresenta un valido strumento per incoraggiare la quotazione o la cessione sul mercato di azioni di proprietà degli attuali soci di controllo e per favorire la privatizzazione di S.p.A. senza che il “socio pubblico” incorra nel rischio di vedere svuotato il suo peso decisionale, dall’altro depotenzia il grado di “contendibilità” dell’impresa e rischia di esacerbare il conflitto di interessi tra soci di maggioranza e di minoranza.

Ad avviso di chi scrive, gli effetti negativi sopra paventati sembrano più “casi di scuola” che reali, e quindi, come tali, non in grado di giustificare la conservazione del principio “un voto, un azione” che sin qui ha portato a: strutture piramidali dominanti, patti di sindacato ben presidiati, assetti proprietari concentrati, “scatole cinesi”. Tutti meccanismi che hanno determinato un vero e proprio “ingessamento” della governance societaria.

Infatti, quanto al depotenziamento della “contendibilità”, sembra difficile immaginare che le “loyalty shares” rappresentino una minaccia, visto che, sovente, gli azionisti di maggioranza delineano l’assetto proprietario già in sede di Ipo, in modo da preservare e massimizzare il loro potere di controllo.

Quanto invece al rischio che le “loyalty shares” vengano utilizzate come strumento finalizzato a rafforzare la posizione predominante del socio di controllo a scapito dei soci di minoranza, questo sembra in parte mitigato dalla modifica apportata dal Decreto all’art. 106, c.1, Tuf, in virtù della quale l’obbligo dell’Opa totalitaria per superamento della soglia del 30% avviene non più solo in caso di superamento dipeso da “nuovi acquisiti” ma anche laddove il superamento sia dipeso per “maggiorazione dei diritti di voto”.

L’ultima parola spetterà comunque alla Consob, alla quale è demandato il delicato compito di indicare, in apposito regolamento attuativo, le misure in grado di garantire un punto di equilibrio tra gli interessi in gioco.

* Le opinioni sono espresse a titolo personale e non impegnano l’istituzione di appartenenza.