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Prospettive delle banche europee: prudenza nelle previsioni

Un recente rapporto dell’EBA ha messo in evidenza un complessivo miglioramento del sistema bancario europeo, che ha raggiunto un assetto più solido ed equilibrato. In 11 paesi (tra essi, Regno Unito, Paesi Bassi, Spagna, Germania) le nuove risorse patrimoniali avrebbero superato quelle necessarie al semplice adeguamento dei coefficienti patrimoniali, lasciando spazio ad un aumento delle attività. Non mancano però paesi (tra essi, Austria, Belgio, Irlanda, Svezia e Ungheria e, anche se con un’intensità molto limitata, Francia e Italia) in cui al rafforzamento patrimoniale ha contribuito significativamente la contrazione dell’attività. I rilevanti progressi realizzati sul piano patrimoniale autorizzano un prudente ottimismo sulle prospettive del sistema bancario europeo. Non sono poche, però, le zone d’ombra, tra l’effetto negativo sui margini bancari della discesa in territorio negativo di larga parte dei rendimenti finanziari.

Silvano Carletti
Carletti

Nel novembre scorso l’EBA (European Banking Authority) ha pubblicato il rapporto “ Eu-wide transparency exercise” che analizza sotto molteplici profili la situazione di 105 grandi gruppi bancari di 21 paesi europei, titolari di circa $30mila miliardi di attività, approssimativamente i due terzi dell’intero circuito bancario europeo. I dati presi in considerazione sono quelli al 30 giugno 2015, quindi esattamente alla metà del percorso che porterà alla piena applicazione di Basilea 3 (inizio 2019).

Nell’insieme se ne ricava che il sistema bancario europeo ha compiuto sostanziali passi in avanti verso un assetto più solido ed equilibrato. Molti gruppi, probabilmente anche muovendo da situazioni meno problematiche, hanno ampiamente raggiunto gli obiettivi assegnati dalle autorità regolamentari; un numero limitato ma non trascurabile di istituti deve però ancora completare le necessarie modifiche nello stato patrimoniale.

Una delle parti più interessanti di questo rapporto dell’EBA è la ricostruzione di come è stato conseguito l’incremento dei coefficienti patrimoniali. L’approfondimento mira a contestare la tesi secondo cui il rafforzamento patrimoniale ha indotto una riduzione delle esposizioni bancarie (deleveraging), in questo modo aggravando la negativa congiuntura economica. Nell’insieme, il riequilibrio tra dotazione patrimoniale e attivo a rischio, registrato tra gennaio 2014 e giugno 2015, risulta essere avvenuto con un incremento del numeratore del rapporto piuttosto che con una contrazione dell’aggregato posto a denominatore; circa metà dell’incremento delle risorse patrimoniali sarebbe venuto dalla mancata/minore distribuzione degli utili.

In 11 paesi (tra essi, Regno Unito, Paesi Bassi, Spagna, Germania) le nuove risorse patrimoniali avrebbero superato quelle necessarie al semplice adeguamento dei coefficienti patrimoniali, lasciando spazio ad un aumento delle attività. Non mancano però paesi (tra essi, Austria, Belgio, Irlanda, Svezia e Ungheria) in cui al rafforzamento patrimoniale ha contribuito significativamente la contrazione dell’attività. Anche in Italia e Francia è rilevabile un’analoga tendenza ma di intensità molto limitata.

Anche gli andamenti più recenti dimostrerebbero come non sia corretta l’accusa di aver privilegiato il rafforzamento patrimoniale sacrificando lo sviluppo dell’attività. Nel primo semestre 2015 ad un incremento del 3,3% del CET1ha fatto riscontro un incremento del 3,9% dell’esposizione verso imprese e famiglie. Sarebbero proprio i gruppi bancari che hanno accresciuto maggiormente il loro capitale nel 2014 quelli ora in grado di cogliere le opportunità proposte dal miglioramento congiunturale: secondo l’EBA, nell’insieme, il rafforzamento patrimoniale sarebbe stata una pre-condizione e non un ostacolo alla crescita dei finanziamenti.

[il CET1, Common Equity Tier ratio, è il rapporto patrimoniale costruito ponendo a numeratore le risorse di migliore qualità (sostanzialmente capitale e riserve) e a denominatore il totale dell’attivo ponderato per il livello di rischio]

I rilevanti progressi realizzati sul piano patrimoniale autorizzano un prudente ottimismo sulle prospettive del sistema bancario europeo. Non sono poche, però, le zone d’ombra.

La prima e più importante è sicuramente quella alimentata dalla discesa in territorio negativo di una larga parte dei rendimenti finanziari. Con il “rafforzamento” del Quantitative Easing (QE) deciso nelle settimane scorse è divenuto ancor più chiaro che si tratta di uno scenario destinato ad approfondirsi ulteriormente e a proseguire a lungo. Nella riunione del 3 dicembre scorso, infatti, il Consiglio direttivo della BCE ha deciso: a) di spingere ulteriormente al ribasso (-10 centesimi) il tasso di interesse “corrisposto” sui depositi presso la banca centrale, portandolo al -0,30%; b) di estendere la durata del programma di acquisto di titoli fino a tutto marzo 2017; c) di includere nel programma di acquisto strumenti di debito denominati in euro ed emessi da autorità regionali o locali; d) di reinvestire in titoli le somme incassate da quelli che giungono a scadenza; e) di continuare a soddisfare senza limiti di importo (full allotment) le richieste di rifinanziamento attivate dalle banche.

La decisione della Bce di richiedere una remunerazione per l’accettazione dei depositi (inaugurata nel giugno 2015) è rafforzata dagli analoghi provvedimenti decisi dalle banche centrali di numerosi paesi non appartenenti all’area euro (Svizzera, Svezia, Danimarca), decisione quasi sempre adottata in misura più accentuata.

Alcuni osservatori hanno evidenziato che se l’onere di questi tassi negativi non viene trasferito alla clientela, il provvedimento si traduce in un prelievo sugli utili delle banche. D’altra parte, se il “recupero” avviene con un incremento dei tassi attivi applicati ai finanziamenti all’economia (come sembra avvenire in Danimarca), ne deriva un depotenziamento delle misure della Bce.

Per adesso la misura difensiva adottata da alcune banche consiste nell’applicare una commissione sui soli depositi di rilevante entità (dalla Commerzbank, al Crédit Suisse, a HSBC).

Tassi di riferimento su livelli addirittura negativi spingono verso il basso l’intera struttura dei rendimenti finanziari, con un riscontro negativo sui margini bancari a cominciare dal margine d’interesse, la principale fonte di ricavo delle banche

Negli Stati Uniti il QE non sembra aver avuto ricadute negative per le banche. Le autorità statunitensi hanno optato per il QE ben prima di quelle dell’eurozona, con un incremento di circa $3.700 miliardi del bilancio della Federal Reserve.

Se si guarda ai conti delle banche americane negli ultimi due anni (III trimestre 2013 – III trimestre 2015) si riscontra un aumento del margine d’interesse del 4%, sintesi di un incremento del 2,3% degli interessi attivi e di una contrazione di quasi il 12% di quelli passivi. La spiegazione principale della tenuta del margine d’interesse non è nella dinamica dei tassi (il margine netto unitario si è ridotto) ma nello sviluppo dei volumi: nei 24 mesi considerati, infatti, il portafoglio prestiti aumenta del 9,5% ($840 mld), riflesso di una congiuntura economica moderatamente positiva.

Tre i fattori che fanno ritenere non facilmente replicabile in Europa questa favorevole situazione, almeno nel futuro più immediato. In primo luogo, anche grazie ad una dinamica dei prezzi almeno leggermente positiva, negli Stati Uniti i tassi d’interesse non sono scesi in territorio negativo. La Fed continua a remunerare positivamente i fondi in eccesso depositati dalle istituzioni di credito (l’IOER, Interest rate On Excess Reserves, è attualmente pari allo 0,5%).

In secondo luogo, la crescita economica appare in Europa troppo modesta per sostenere un incremento significativo del volume dei prestiti.

Questa notazione è rafforzata da una terza considerazione: il circuito di finanziamento delle imprese sta perdendo in Europa parte del suo carattere “bancocentrico”, volendo con ciò sottolineare che la domanda di finanziamentii delle imprese trova crescente risposta nel mercato dei corporate bond piuttosto che nei prestiti bancari. In effetti se si guarda a quanto avvenuto da metà 2013 ad oggi, da quando cioè l’eurozona ha ripreso nel suo insieme un sia pur timido percorso di crescita, si rileva che il mercato dei corporate bond (titoli in euro con scadenza superiore all’anno) ha catturato una parte della domanda in precedenza soddisfatta dal mercato bancario. É certamente vero che nei rapporti tra le due modalità di finanziamento le fasi favorevoli si possono alternare (negli ultimi mesi in numerosi paesi europei il dinamismo del mercato dei titoli corporate ha in effetti risentito della maggiore competitività dell’offerta bancaria). Nel complesso però nell’eurozona il rapporto tra i due canali di finanziamento sembra registrare una stabile correzione, a sfavore di quello bancario. Ne consegue, quindi, che nel caso europeo non è ragionevole assumere che una crescita della domanda di finanziamenti da parte delle imprese (indotta da una crescita economica tornata vigorosa) possa tradursi in un corrispondente incremento della domanda di prestiti bancari.

Il QE ha molte altre ricadute sul circuito economico-finanziario, alcune con favorevoli implicazioni per le banche (ad esempio, tassi su livelli molto     contenuti alleggeriscono la posizione finanziaria di imprese e famiglie e quindi tendenzialmente migliorano la qualità del portafoglio prestiti). Nondimeno, non sarà facile trovare adeguate compensazioni alle spinte al ribasso sul principale dei margini bancari.