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Non si possono più costituire trust “interni” in Italia?

Il Tribunale di Udine, con sentenza del 28 febbraio 2015, ha dichiarato nulli due trust perché i trust «non possono essere riconosciuti dal nostro ordinamento». La sentenza fa discutere perché l’Italia si è impegnata, ai sensi dell’art. 11 della Convenzione dell’Aja del 1 luglio 1985, in forza della legge 26 ottobre 1989, n. 364., a riconoscere nel proprio ordinamento gli effetti dei trusts che posseggono le caratteristiche di cui all’art. 2 della Convenzione, pur non avendo una disciplina interna della materia. Ci si chiede allora se la Convenzione dell’Aja debba essere considerata una mera norma di diritto internazionale privato o una legge materiale uniforme.

Alessandra Protani

 

Con sentenza del 28 febbraio 2015 il Tribunale di Udine è tornato sulla vexata quaestio dell’ammissibilità nel nostro ordinamento del trust interno, cioè di un trust in cui, secondo la definizione datane da chi ha proposto tale espressione, <<tutti gli elementi soggettivi ed obbiettivi>> sono <<legati ad un ordinamento che non qualifica lo specifico rapporto come trust, mentre esso è regolato da una legge straniera che gli attribuisce quella qualificazione>>.

Si tratta indubbiamente di uno degli istituti più tipici degli ordinamenti di Common law ed anche uno dei più difficili da comprendere per un giurista di Civil law, non potendo essere assimilato a nessuna figura giuridica dei sistemi di derivazione romanistica. Proprio per questo motivo la questione della validità del trust è stata per anni al centro di un vivace dibattito, essendo l’incipit di ogni ulteriore discorso sull’applicabilità dell’istituto in Italia, “placatosi” solo a seguito della ratifica da parte del nostro Paese della Convenzione dell’Aja del 1 luglio 1985, in forza della legge 26 ottobre 1989, n. 364.

Con tale ratifica si è creata una situazione apparentemente singolare, dal momento che l’Italia (primo fra i Paesi di Civil law) si è impegnato, ai sensi dell’art. 11 della Convenzione, a riconoscere nel proprio ordinamento gli effetti dei trusts che posseggono le caratteristiche di cui all’art. 2 della Convenzione, senza però avere una disciplina interna della materia.

Orbene, ciò che stupisce dalla lettura del dispositivo della sentenza in oggetto è che essa, in materia di trust interno,incurante della pregressa evoluzione giuridica, sposta “le lancette dell’orologio” indietro di almeno 20 anni. Facendo così venir meno d’un colpo quelle certezze consolidatesi, sia pur lentamente, nel corso del tempo e riportando alla luce “la madre di tutti i problemi in materia di trust”.

In altri termini, il Tribunale monocratico fa riemergere il dibattito sull’efficacia della Convenzione dell’Aja sui trusts ovvero se essa sia solo una norma di diritto internazionale privato o anche una legge materiale uniforme.

Il giudice friulano, infatti, nel decidere il caso sottoposto alla sua attenzione ha dichiarato nulli due trust non perché simulati, non perché fraudolenti, non perché confezionati in dispregio a qualche norma di legge, e neanche perché istituiti per sottrarre beni al fisco o a una procedura esecutiva o concorsuale ma semplicemente perché i trusts<<non possono essere riconosciuti nel nostro ordinamento giuridico (…)>>.

Nel dispositivo della sentenza, il giudice afferma di aderire «alla tesi minoritaria», riesumando così quella, ormai anacronistica, diatriba dottrinale e giurisprudenziale che risale agli anni ‘80 quando il trust iniziò a muovere i primi passi nel nostro ordinamento giuridico.

I motivi della decisione sono riconducibili ad una personale interpretazione dell’art.13della Convenzione dell’Aja elaborata dallo stesso Organo giudicante, secondo cui l’articolo in questione, affermando che <<nessuno Stato è tenuto a riconoscere un trust i cui elementi significativi, ad eccezione della scelta della legge applicabile, del luogo di amministrazione o della residenza abituale del trustee, siano collegati più strettamente alla legge di Stati che non riconoscono l’istituto del trust o la categoria del trust in questione>>, lascia liberi gli ordinamenti no-trust di riconoscere o meno i trusts interni.

Quindi, in virtù di detta interpretazione, in linea con la tanto “rivendicata”, quanto ormai superata, tesi minoritaria, lo scopo della Convenzione dell’Aja è solamente quello di permettere ai trusts costituiti nei Paesi di Common law di operare anche nei Paesi di Civil law. Questo perché come si legge nel dispositivo della sentenza si tratta <<pur sempre di una Convenzione in tema di conflitti di leggi>> alla quale non può essere attribuito il <<carattere di una Convenzione di diritto sostanziale>>. Con la conseguenza che la libertà, consentita dalla suddetta Convenzione ai vari Paesi, al riconoscimento del trust interno non è riservata ad una iniziativa del legislatore, ma è demandata al giudice, investito del compito di verificare volta per volta, esaminando le caratteristiche del caso concreto (la “causa concreta” del negozio), la meritevolezza o meno del singolo trust.

Il ragionamento non appare in alcun modo condivisibile ed il suo epilogo assolutamente inaccettabile.

Infatti, contrariamente al giudice friulano, la dottrina maggioritaria, da tempo ormai dominate in materia, e le altre pronunce giurisprudenziali che hanno preso posizione sul punto, ritengono che l’art.13 sia rivolto ai giudici (secondo quanto indicato anche nei citati lavori preparatorî), e che attribuisca loro il potere di non riconoscere un trust interno non per il solo fatto di essere “interno”, ma solo in presenza di valide e forti ragioni, che vanno al di là del rilievo sommario secondo cui il trust, essendo “interno” non deve e non può essere riconosciuto, il che sarebbe in contrasto con la libertà di scelta prevista all’art. 6 cardine della Convenzione.

L’art. 13 viene dunque correntemente interpretato come “norma di chiusura”, la quale consente al giudice di non riconoscere il trust regolato da legge straniera nel caso in cui il giudice ritenga ugualmente il trust non meritevole di riconoscimento in quanto realizzi un “abuso di diritto”, venga utilizzato “in frode alla legge”, o comunque realizzi effetti valutati dal giudice ripugnanti all’ordinamento in cui dovrebbe essere riconosciuto.

E’ quindi evidente che diversamente da quanto si legge nella sentenza in commento, lo scopo della Convenzione è quello di ridurre l’attrito che il riconoscimento del trust in ordinamenti no-trust produce. La Convenzione sui trusts, dunque, non poteva essere, e non è, la tipica Convenzione di diritto internazionale privato. Ad essa si chiedeva di più ed essa ha dato di più: ha creato un istituto nuovo (il c.d. trust <<amorfo>>), individuando una fattispecie che non distingue mai espressamente tra trust interno e trust internazionale, lo ha posto agli Stati che hanno ratificato, anche se questi non conoscevano tale istituto neppure lontanamente ed ha approntato una disciplina ad hoc abbastanza puntuale.

Ma vi è di più! Infatti, pur volendo aderire alla tesi minoritaria, “rivitalizzata” dalla pronuncia friulana, circa l’interpretazione dell’art.13, non appare contestabile il fatto che l’Italia, ratificando la Convenzione dell’Aja, abbia fatto diventare norma di legge interna il principio per il quale il trust (quale delineato dalla Convenzione stessa) “ha diritto” di nascere, di esistere e di operare in Italia. E’ la stessa Convenzione, infatti, come sopra anticipato, che all’art. 2 dà una definizione legale di trust e perciò sembrerebbe illogico attribuire al giudice un potere, dai limiti indefiniti, di valutare la meritevolezza del trust, al di là delle “estreme” ipotesi di abuso di diritto o fine fraudolento, ogni qualvolta si trovi dinanzi ad un negozio giuridico avente le caratteristiche suddette.

In conclusione, non servono ulteriori parole per affermare che il matrimonio tra trust ed ordinamento italiano si è ormai da tempo celebrato seppur all’insaputa del giudice friulano. E’ evidente, quindi, che una discussione sulla validità dello stesso dello stesso è oggi più che mai anacronistica anche se è pur vero che per mettere un punto fermo alla questione è necessario un pronto intervento del legislatore, finalizzato ad una più puntuale disciplina circa il riconoscimento di tale istituto affinché ciò possa giovare alla diffusione dello stesso nell’ambito dei traffici giuridici interni al nostro ordinamento.