approfondimenti/politica economica
La "flat tax" al 15% su tutti i redditi

Può l’imposizione sui redditi con un'aliquota unica molto bassa costituire uno strumento per la ripresa economica? Per il Prof. Rabushka pare proprio di sì. Gli italiani sono per questo retrogradi, ancora legati ad una imposizione fiscale progressiva, ignorando le caratteristiche virtuose della “tassa piatta”. Ma se i sostenitori della “flat tax” ricordano, a più riprese, gli ottimi risultati conseguiti dai circa 40 Paesi che hanno utilizzato questa modalità impositiva, occorre anche considerare che il successo di queste esperienze, peraltro non proprio così evidente, ha riguardato realtà economiche (Estonia, Lituania, Lettonia, Russia, Paraguay, Serbia, ecc.) molto diverse da quella italiana. In Italia, infatti, l'introduzione di un'imposta sul reddito ad aliquota unica porrebbe rilevanti problemi, sia in materia di gettito, sia dal punto di vista dell'equità fiscale, mentre i benefici economici sono null'altro che una pericolosa chimera propagandistica.

Franco Cavallari

 

Il fondamento teorico dell’assunto virtuoso concernente il recupero di imposte generato da una riduzione delle tasse è stato enunciato dal Prof. Laffer nel 1980. L’analisi dello studioso statunitense si proponeva di dare a questa tesi una forma che avesse una qualche parvenza di scientificità, traducendo in un grafico a campana oblunga l’andamento del volume delle entrate fiscali in funzione del tasso di imposizione. Ma l’obiettivo politico di Laffer e di alcuni circoli repubblicani di Washington che lo sostenevano consisteva nel cercare di indurre il candidato alla Presidenza degli USA, Ronald Reagan, ad inserire nel suo programma elettorale una drastica riduzione delle imposte sui redditi più elevati.

Nei circoli degli economisti statunitensi circolava una battuta: “la maggiore qualità della curva di Laffer consiste nel fatto che in mezzora può essere spiegata ad un deputato del Congresso e che questi potrà parlarne per sei mesi”. Il Premio Nobel per l’economia Joseph E. Stiglitz nel suo libro “I ruggenti anni novanta” ha definito la curva di Laffer “una teoria scarabocchiata su un foglio di carta”

Eletto presidente nel 1981, Reagan, in piena sintonia con l’egemonia culturale “monetarista” dell’epoca, attuò, nel periodo 1981-1986, un vasto programma di detassazione, abbassando dal 70% al 28% l’aliquota marginale sui redditi più elevati. La teoria monetarista egemone in quel tempo postulava, tra l’altro, che la diminuzione delle tasse avrebbe indotto un incremento delle entrate federali; nel lungo periodo, il ciclo “virtuoso” innescato dalla detassazione avrebbe corretto le distorsioni presenti nel processo di accumulazione. Un aggiustamento economico che, migliorando la produttività del sistema, avrebbe indotto una sensibile lievitazione della crescita. In effetti, l’Amministrazione Reagan non istituì la tassa unica, ma introdusse sgravi molto importanti sui redditi più alti. Ciò consentì di conseguire, nel breve, buona parte dei risultati annunciati in termini di aumento del gettito e, nel medio periodo, un consistente sviluppo del reddito. Ma l’aumento della ricchezza del paese così realizzato produceva un non trascurabile incremento delletensioni sociali: il gravame fiscale si spostava sempre più sulla classe media, mentre, dal punto di vista economico, si allargava notevolmente la forbice dei redditi, a vantaggio delle classi ricche e a detrimento della classe media e dei meno abbienti.

Il padre riconosciuto della “flat tax”, una variante dei tempi nostri della detassazione reaganiana, è il Prof. Alvin Rabushka, che, sulla base dell’assunto di Laffer, ha concepito un modello economico in cui l’imposizione sui redditi con un’aliquota unica molto bassa rappresenta il presupposto della ripresa economica. Invitato al Convegno leghista sull’argomento tenutosi a Milano il 13 dicembre 2014, Alvin Rabushka ,”autoproclamatosi” consulente di Reagan, ha accusato gli italiani di essere retrogradi perché credono ancora alla progressività, tessendo le lodi delle presunte caratteristiche virtuose della “tassapiatta”. Comprimario nella campagna in favore dell’aliquota unica è l’economista di origine tedesca Robert Hall, che, insieme a Rebushka, haelaborato il modello di tipo comportamentale con cui sono state effettuate le simulazioni.

Entrambe Professori in pensione dell’Università di Stanford, ultrasettantenni studiosi di secondo rango nel “ranking” internazionale degli economisti, da più di un decennio Rabuska e Hall viaggiano per il mondo, cercando di vendere la loro ricetta, oltre che ad alcuni Stati degli USA ed ai Paesi dell’Europa dell’est, anche alle microscopiche realtà statali sparse per i cinque continenti. La loro proposta è basata sull’assioma secondo cui, chi più chi meno, tutti gli Stati applicano un livello di tassazione situato nel tratto discendente della curva di Laffer. Ne consegue che se ci spostiamo verso la sinistra sull’asse delle ascisse, vale a dire se diminuiamo il tasso di imposizione, incontriamo un livello sempre più alto del gettito; in altri termini, ad una diminuzione del livello di tassazione corrisponderebbe un aumento delle entrate tributarie.

La simulazione principale sul modello Rabushka- Hall prevede un’aliquota unica sul reddito del 19% e una deduzione di 25.500 $ per una famiglia di 4 persone, da applicare alla base imponibile costituita da tutti i redditi percepiti, meno gli investimenti e i costi di produzione (il che equivale a tassare solo il consumo). I risultati della simulazione indicano che, oltre ad una semplificazione degli adempimenti, il nuovo sistemacomporterebbe anche l’eliminazione dei fattori che distorcono i determinanti dell’accumulazione di capitale. Di qui, ma solo nel lungo termine, un aumento degli investimenti produttivi e quindi una lievitazione della crescita economica. Dal punto di vista redistributivo, il modello segnala, però, un ampliamento della forbice dei redditi ed un maggiore peso fiscale sulla classe media, a vantaggio delle classi di reddito più elevate.

Anche numerosi altri economisti si sono recentemente cimentati nella stima degli effettidell’aliquota unica con modelli alquanto discutibili dal punto di vista dell’obiettività. Tra i più importanti tentativi di stima degli effetti della flat tax, troviamo il bel saggio di Conesa e Krueger, due giovani diplomati PhD nell’anno 2000, da alcuni anni Professori in due diverse università degli USA. Nel 2006, ancora ricercatori, i due economisti hanno pubblicato sul “Journal of Monetary Economics” una simulazione sulla base di un loro modello econometrico degli Stati Uniti.

Malgrado il non trascurabile tasso di partigianeria dello studio, che solleva peraltro una serie di complessi problemi teorici (tra cui quelli connessi all’utilitarismo della funzione del benessere” di Rawls), le conclusioni, molto simili a quelle del modello di Rabushka-Hall, risultano abbastanza deludenti dal punto di vista applicativo:

a) Con l’applicazione di una “flat tax” del 17,2%, (tasso stimato ottimale) e un’esenzione

personale di 9.400 $, il gravame fiscale alla fine del ciclo degli aggiustamenti risulterebbe

leggermente ridotto per i redditi inferiori a 18.200 $, drasticamente diminuitoper quelli superiori a

65.000 $, ma sensibilmente più pesante per i redditi intermedi.

b) Nel lungo termine (vale a dire dopo 10 anni), la produttività dei redditi più elevati

migliorerebbe, ma il consumo globale aumenterebbe soltanto dell’1,7,%, lo sviluppo del

reddito dello 0,64%e l’offerta di lavoro dello 0,54%.

E’ appena il caso di accennare ad alcuni dei molteplici altri tentativi di valutare gli effetti della tassa unica sui redditi, come ad es. quello di Diaz-Gimenez e Pijoan-Mas , che hanno svolto un lavoro comparativo tra due diverse ipotesi di riforma applicate all’economia statunitense, chiaramente ispirate al modello di Rabushka; oppure , lo studio di Gonzalez-Torrabadella e Pijoan-Mas, che hanno tentato una stima dell’effetto che produrrebbe l’introduzione di una flat tax in Spagna con un’ipotesi che non elimina la tassazione sull’impresae non include i nuovi investimenti tra gli oneri deducibili. I risultati ottenuti sono comunque in entrambe i casi molto simili ai precedenti: gli effetti in termini di aumento di reddito presentano evidente contraddittorietà nei risultati: più le ipotesi impositive sono progressive e meno risultano espansive e più sono espansive e più aumenta la diseguaglianza fiscale e la regressività del carico fiscale.

Altri tentativi sono stati effettuati da Clemens Fuest, Andreas Peicl e Thilo Schaefer dell’Università di Colonia per l’economia tedesca e da Gonzales-Torrabadella e Pijoan-Mas per l’economia spagnola. Ma le simulazioni sui loro modelli, pur stimando nel breve un guadagno di efficienza, rivelano anche qui un forte aumento della disuguaglianza fiscale a scapito dei redditi medi. In particolare, nel caso tedesco gli stessi autori evidenziano un grosso problema di tipo politico, testimoniato dalle reazioni inferocite dell’opinione pubblica alla proposta di flat tax avanzata da un esponente della CDU tedesca poco prima delle scorse elezioni. Difficile sarebbe far passare una riforma del genere in Germania, e ancora meno facile sarebbe mantenerla in vigore, a causa della lunga transizione verso i supposti benefici di lungo periodo. Anche nel secondo caso, le varie ipotesi di aliquota ed esenzione testate presentano un quadro di risultati che oltre ad essere non poco contraddittori, evidenziano un’inaccettabile regressività fiscale.

La maggior parte degli altri studi nella materia (Altig, Auerbach, Kotlikoff, Smetters, Walliser (2001) e Ventura (1999). pervengono a conclusioni economiche similari: gli effetti positivi sugli investimenti e sullo sviluppo economico si producono solo nel lungo periodo, mentre gli effetti redistributivi della “flat tax” avvantaggiano in misura significativa solo le classi più ricche, a detrimento dei redditi della classe media.

A parte tutte le limitazioni che presentano i modelli econometrici e prescindendo dai deludenti risultati delle simulazioni , va sottolineato che i modelli adoperati sono di tipo comportamentale, vale a dire sono costruiti sulla base di comportamenti predeterminati degli agenti economici; comportamenti che postulano un aumento del gettito al verificarsi di una diminuzione del tasso di imposizione.

I sostenitori della“flat tax” ricordano che è stata applicata con ottimi risultati in circa 40 Paesi, mail successo di queste esperienze non è proprio così evidente. In ogni caso, va ben focalizzato che le caratteristiche dei Paesi in questione sono molto diverse da quelle che caratterizzano le economie avanzate come l’Italia.

I primi Paesi ad introdurre l’aliquota unica furono l’Estonia, la Lettonia e la Lituania nel 1994, tre piccoli paesi dal limitatissimo potenziale industriale, usciti da poco dall’influsso della potenza sovietica. La Russia di Putin, che non aveva mai conosciuto imposte specifiche sul reddito, ha istituìto nel 2001 un’imposta sul reddito del 13%, tutt’ora in vigore. Il Paraguay, che parimenti mai aveva sperimentato un’imposta sul reddito, ha introdotto l’imposta unica sul reddito nel 2010.

Dopo il 2001, attratte dal miraggio dei risultati conseguiti dalla Russia, (entrate + 16%) , introdussero la “flat tax” anche la Serbia, l’Ucraina, la Georgia, la Romania, l’isola di Jersey, le Seichelles, Trinidad e Tobago, le isole Tuvalu, Jamaica, Hong Kong e alcune minuscole repubbliche caucasiche; quindi nel 2007, fu la volta di Macedonia, Albania e Montenegro. La Slovacchia, che l’aveva istituita nel 2004 nella misura del 19%, dopo aver riscontrato un gettito insufficiente ed aver subito gli inconvenienti sociali della mancanza assoluta di progressività, nel 2013 ha affiancato al 19% una seconda aliquota del 23%.

Il caso della riforma fiscale della Russia è stato oggetto nel 2005 di un’approfondita analisi da parte del Fondo Monetario Internazionale, che è giunto a conclusioni nettamente critiche dal punto di vista della validità dell’imposta unica sul reddito: la riforma fiscale ha aumentato la fidelizzazione dei contribuenti, che nell’URSS quasi non esisteva; ma non è stata la “flat tax” a causare l’aumento delle entrate fiscali, né a rilanciare l’attività economica. “L’economia russa ha beneficiato in quel periodo di un boom delle entrate derivante dall’impennata del prezzo del petrolio e del gas”, nonché dell’ammodernamento dellamacchina fiscale; ma non ci sono prove del legame tra crescita economica e “flat tax” a bassa aliquota.

Per quanto si riferisce all’eventuale applicazione nel nostro Paese, l’introduzione di un’imposta sul reddito ad aliquota unica del 15% porrebbe rilevanti problemi, sia in materia di gettito, sia dal punto di vista dell’equità fiscale, mentre i benefici economici sono null’altro che una pericolosa chimera propagandistica.

In materia di gettito, un conteggio approssimativo evidenzia un volume di entrate molto inferiore a quello attuale. Le due imposte che la “flat tax” sostituirebbe procurano all’Erario circa 200 Mld netti (160 Mld l’IRPEF e 40 Mld l’IRES). L’imposta proposta del 15% colpirebbe i redditi sottostanti a queste due imposte, valutati rispettivamente650 Mld riferibili a circa 28 milioni di contribuenti per l’IRPEF e 180 Mld. riferibili alle imprese per l’IRES, con una base imponibile complessiva di circa 830 Mld. Ne conseguirebbe un gettito lordo di circa 125 Mld. che, al netto almeno delle detrazioni per carichi di famiglia e di quelle pluriennali per ristrutturazioni edilizie e risparmio energetico, si ridurrebbe a circa 100 Mld. Trascurando le addizionali regionali e comunali (che pure andrebbero compensate), mancherebbero dunque all’appello i restanti 100 Mld.

Osservano, però, i proponenti della “flat tax” che, con un tasso di imposizione ridotto al 15%, la maggior parte degli evasori non avrebbe interesse a rischiare, nascondendo al Fisco il reddito prodotto. Così il vuoto di entrate di 100 Mld sarebbe compensato dalle imposte riferibili ai redditi evasi che emergerebbero; la pressione fiscale complessiva resterebbe identica, ma sarebbe meglio distribuita perché gravante su una base impositiva più vasta.

In realtà, non è precisamente questo il meccanismo compensativo che si innescherebbe. Non si può comunque affermare che la “flat tax” porterebbe alla luce quei redditi da lavoro autonomo che attualmente sfuggono alla tassazione, poiché l’ipotetico risparmio di imposta per gli evasori dovuto al ridotto tasso di imposta sarebbe riferibile soltanto ad una modesta quota della pressione fiscale complessiva. In effetti, il tasso di imposizione di tutte le altre imposte, tasse e contributi, ammontanti complessivamente a circa 400Mld, resterebbe invariato e quindi peserebbe come in precedenza sui redditieri emersi.

Dove sarebbe allora la convenienza degli evasori a dichiarare i loro redditi, dal momento che alla fine del ciclo la ventilata diminuzione della pressione fiscale su di loro sarebbe riferibile soltanto ad una quota minima dell’evasione complessiva, appunto quella relativa alle sole imposte sul reddito? E dove sarebbe l’incentivo agli investimenti da parte dei contribuenti corretti, laddove essi usufruirebbero solo di una diminuzione parziale delle imposte, appunto quella relativa all’imposta sul reddito, valutabile in circa 1/5 del totale delle entrate tributarie e contributive?

Anche laddove il risparmio teorico di circa 1/5 del totale delle imposte e tasse attuali fosse un movente sufficiente a far emergere i redditi degli evasori, dal loro punto di vista non è poi irrilevante l’eventualità di una “controriforma”, con il successivo ripristino della tassazione precedente o, magari, ancora più gravosa.

In conclusione, a parte il dettato della Costituzione della Repubblica, secondo cui il sistema fiscale nel nostro paese deve essere improntato a criteri di progressività, per un’economia complessa come quella italiana, l’introduzione della “flat tax” rappresenterebbe una vera iattura, che, aprendo una voragine nei conti pubblici, farebbe pagare a caro prezzo la crisi alle famiglie, senza rappresentare un reale vantaggio per le imprese.