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Ius poenitendi: e adesso tocca ai giudici

Il diritto di recesso nell’offerta fuori sede si esercita solo nei contratti previsti dal legislatore. E’ quanto sentenzia il Tribunale di Torino. Che applica la legge ma non placa la confusione

Claudia Petracca
Petracca

Le seguenti brevi riflessioni prendono le mosse dalla sequenza di interventi giurisprudenziali e normativi che, nell’ultimo anno, hanno caratterizzato la disciplina applicativa del diritto  di recesso di cui all’art. 30 del Tuf in materia di offerta fuori sede.

Sequenza di interventi che, lungi dal chiarire il contesto di riferimento, hanno, di volta in volta, alimentato dubbi e confusione e non hanno certamente giovato all’applicazione di quello che dovrebbe essere un principio cardine del nostro ordinamento giuridico: la certezza del diritto.

Prima di affrontare i contenuti dell’ultima sentenza che, in ordine di tempo, è intervenuta in materia (Tribunale Torino, 29 luglio 2014) e tentare di aggiornare lo stato dell’arte, pare utile – per mere ragioni di completezza sistematica – ripercorrere la cronologia dei precedenti interventi. Come noto, nel 2013 le Sezioni Unite della Corte di Cassazione (sentenza n. 13905 del 3 giugno) hanno ridefinito – ampliandolo – l’ambito di applicazione del diritto di ripensamento disciplinato dall’art. 30 del Tuf, sconfessando i precedenti (pur se non univoci) orientamenti in materia e, soprattutto, le indicazioni al riguardo provenienti dall’Autorità di vigilanza. Tale ridefinizione muoveva dalla asserita ambiguità semantica del termine “collocamento” utilizzato nell’art. 30 del Tuf la quale, unita all’impossibilità di ricorrere utilmente all’applicazione di ulteriori criteri ermeneutici, ha fatto ritenere che il diritto di ripensamento in capo al cliente che abbia disposto “fuori sede” operazioni di investimento debba applicarsi non solo ai contratti di “collocamento” e “gestione” ma anche a ogni altro contratto, laddove il cliente possa ritenersi “sorpreso” dall’iniziativa del promotore e, dunque, ricorra la “medesima esigenza di tutela”. In considerazione del clamore e dei numerosi commenti che hanno fatto seguito all’emanazione di questa sentenza se ne dà per scontata la sua conoscenza e, con essa, ogni criticità rappresentata da autorevoli giuristi, associazioni di categoria e operatori della materia. Ora, al di là delle forti perplessità che caratterizzano la pronuncia sul piano strettamente giuridico, e a tacer d’altro, basti in questa sede ricordare le preoccupazioni segnalate all’unisono dall’industria finanziaria con riferimento ai rischi legali e ai problemi operativi discendenti dall’applicazione dei principi sanciti nella sentenza medesima. Problemi operativi di tale portata che, ad avviso di chi scrive, rendevano di fatto inapplicabile il nuovo perimetro applicativo definito dalla Suprema Corte.

Nell’agosto dello stesso anno, il Legislatore – resosi presumibilmente conto degli effetti ultronei che la sentenza sopracitata aveva ingenerato – con il Decreto del Fare ha modificato l’art. 30 del Tuf stabilendo, al comma 6, che “ferma restando l’applicazione della disciplina di cui al primo e al secondo periodo ai servizi di investimento di cui all’art. 1, comma 5, lett. c), c-bis) e d), per i contratti sottoscritti a decorrere dal  settembre 2013 la medesima disciplina si applica anche ai servizi di investimento di cui all’art. 1, comma 5, lett. a)” (Decreto del Fare, n. 69/2013, art.  56-quater).

Ad avviso di chi scrive, con tale intervento il Legislatore ha sostanzialmente realizzato due importanti risultati, da un lato, interpretando e, dall’altro, innovando.

Dal primo punto di vista, la nuova norma si pone come interpretazione autentica dell’art. 30, comma 6, sottolineando il significato letterale contenuto nell’originaria formulazione e perciò riproponendo quella che era l’originaria voluntas legis, ossia quella di applicare il diritto di ripensamento ai soli contratti di collocamento e di gestione. Una conclusione differente che porti a riconoscere lo ius poenitendi sempre e comunque, per la sola circostanza di aver agito “fuori sede”, introduce, in sostanza, una presunzione legale di aver svolto attività promozionale “sorprendente” in capo al cliente, dando per scontato il ricorrere delle “medesime esigenze di tutela”.

Presunzione questa assolutamente non risultante dalla formulazione letterale dell’art. 30 Tuf, la quale non può essere forzata sino al punto di farle dire ciò che, in realtà, non dice. La ratio della norma è infatti quella di tutelare il cliente da decisioni impulsive disposte fuori sede per effetto della possibile “pressione” esercitata da un promotore finanziario.

Ebbene, mentre tale “pressione” si ritiene potenzialmente ricorrente nelle ipotesi di:

  • collocamento,  in  cui  sussiste  un  preventivo  incarico  distributivo  tra  l’emittente  e l’intermediario;
  • gestione  di  portafogli,  in  cui  il  cliente  viene  contrattualmente  “espoliato”  (in  senso evidentemente relativo) delle decisioni concernenti l’allocazione del suo patrimonio;
  • consulenza non indipendente, in cui l’intermediario viene remunerato dall’emittente dello strumento finanziario,

non può ritenersi parimenti e aprioristicamente sussistente nelle altre ipotesi in cui il cliente, di propria iniziativa, effettui fuori sede disposizioni di investimento. In tali casi è tutt’altro che scontata (e non deve quindi essere presuntivamente riconosciuta) la necessità di richiedere il ripristino a posteriori di quella tutela inizialmente assente (mancanza di adeguata riflessione preventiva che l’operatività fuori sede può comportare).

Per altro verso, il Legislatore primario ha “innovato”, disponendo per il futuro e stabilendo che, a decorrere dal 1° settembre del 2013, il diritto di ripensamento è previsto non solo nella prestazione (fuori sede) dei servizi di collocamento e di gestione ma anche nella prestazione del servizio di negoziazione in conto proprio.

La scrivente ha visto con estremo favore l’intervento legislativo attuato con il Decreto del Fare il quale, ancorché non completamente risolutivo delle problematiche legali e operative generate dalla sentenza delle Sezioni Unite, aveva certamente avuto il pregio di fare chiarezza sul perimetro applicativo dello ius poenitendi nonché sulle tempistiche di decorrenza della sua estensione a un ulteriore servizio di investimento: la negoziazione in conto proprio.

Alla luce del nuovo testo, deve ritenersi che nel predetto perimetro rientrino solo quei servizi che sono espressamente previsti nell’art. 30 del Tuf attraverso il puntuale richiamo alla norma che singolarmente definisce ciascuno di essi, vale a dire l’art. 1, comma 5, lettere a), c), c-bis) e d) del Tuf.

La questione sembrava essere chiarita.

Invece, successivamente alla modifica dell’art. 30 del Tuf ai sensi dell’art. 56-quater del Decreto del Fare sono intervenuti due ulteriori pronunce giurisprudenziali da parte, rispettivamente, della Corte di Cassazione (sentenza n. 7776 del 3 aprile 2014) e del Tribunale di Torino (pronuncia del 29 luglio 2014).

La sentenza della Cassazione (non a Sezioni Unite) del 3 aprile scorso ha sostanzialmente ripreso e ribadito quanto statuito l’anno precedente dalle Sezioni Unite introducendo ulteriori considerazioni e stabilendo, tra l’altro, che l’interprete ha l’obbligo di adottare l’interpretazione maggiormente coerente con i precetti del diritto comunitario. In quest’ottica, la Corte afferma che “poiché l’art. 38 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea sancisce il principio per cui è compito dell’Unione garantire «un livello elevato di protezione dei consumatori», tra due interpretazioni alternative e ambedue plausibili sul piano letterale, l’interprete ha il dovere di preferire quella in grado di apprestare un più elevato livello di protezione al risparmiatore”.

Il Tribunale di Torino ha invece, poco dopo, fatto un passo indietro, riaprendo – in un succedersi di sconfessioni dei precedenti orientamenti giurisprudenziali e interventi normativi – la questione del diritto di ripensamento.

La vicenda affrontata dal Tribunale di Torino ha ad oggetto l’acquisto di obbligazioni Lehman Brothers e riguarda, tra l’altro, la mancata previsione nel contratto (e la conseguente nullità di quest’ultimo) del diritto di recesso per l’acquisto realizzato fuori sede. Il giudice ha affrontato la questione di nullità in via preliminare in quanto potenzialmente risolutiva dell’intero giudizio.

Nella pronuncia si dà innanzitutto atto che l’arresto operato dalla sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione è “per molti aspetti innovativo rispetto all’orientamento giurisprudenziale maggioritario in precedenza diffuso”, così implicitamente riconoscendo e legittimando l’affidamento che tutti gli intermediari, confortati anche dal parere della Vigilanza, hanno sempre fatto sull’ambito di applicazione (letterale e restrittivo) dello ius poenitendi di cui alla previsione del Tuf in commento.

Ma il giudice di Torino è andato oltre. Dopo aver dato atto della portata innovativa della sentenza delle Sezioni Unite, ha sottolineato come il Legislatore “con norma di sostanziale interpretazione autentica” abbia ritenuto di “sterilizzare in parte la portata innovativa della sentenza sopra citata, statuendo  per quel che interessa in questa sede  che per la tipologia di servizi di investimento oggetto di questo procedimento non vi è tutt’ora alcun obbligo di inserire nel contratto la facoltà di recesso nel contratto stipulato fuori dai locali aziendali, atteso che il servizio di investimento nella specie contestato deve essere assunto nella lettera a) del comma 5 dell’art. 1 (ricezione e trasmissione ordini), fattispecie per la quale alcun obbligo è stato consapevolmente previsto dal Legislatore (a differenza delle altre ipotesi contemplate dall’intervento chiarificatore in esame)”.

La sentenza coglie nel segno. Essa, invero, non reca particolari dissertazioni giuridiche sulla presunta volontà del Legislatore né richiama i criteri interpretativi che dovrebbero presiedere l’applicazione delle norme del nostro diritto positivo. La pronuncia, al contrario, ha il grande pregio di riconoscere, con semplicità ed essenzialità, un aspetto di per sé evidente: l’applicabilità del diritto di recesso di cui all’art. 30 del Tuf esclusivamente ai contratti che in esso sono espressamente previsti. Conseguentemente, tale diritto non deve essere riconosciuto in capo al soggetto che disponga disposizioni di investimento fuori sede nell’ambito (come nel caso di specie) di un contratto di ricezione e trasmissioni ordini.

Pur trattandosi di sentenza di merito  per quanto proveniente da autorevole Tribunale  e non di legittimità, e pur riconoscendo che la sua emanazione, in contrasto con i due precedenti orientamenti della Corte di Cassazione, alimenterà l’incertezza degli operatori e genererà ulteriore confusione, deve perlomeno darsi atto che in questo caso il giudice ha fatto ciò che doveva fare: applicare la legge.

La statuizione del Tribunale di Torino risulta, in conclusione, oltre che logica sul piano giuridico, perfettamente aderente al principio per cui il compito dei giudici è quello di applicare la legge e non già quello di introdurre principi e statuizioni che la legge medesima non prevede.

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