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Impresa bancaria e crisi di modelli normativi: il caso delle popolari

La recente riforma delle banche popolari ha favorito un radicale ripensamento sulle politiche aziendali, sulle prospettive di crescita e sulle dimensioni grazie alle maggiori libertà di scelta del tipo societario più adeguato alle concrete esigenze dei soci e, nel caso di mantenimento della vigente struttura, attraverso maggiori efficienze in ordine alla possibilità degli azionisti di svolgere un più accurato scrutinio sull’operato del management.

Giuseppe Leonardo Carriero

Le “popolari” vedono la luce (quale specifica figura di impresa bancaria) nella seconda metà dell’ottocento, sotto la veste di società anonima, stante l’assenza del “tipo” società cooperativa (che verrà introdotto solo col codice di commercio del 1882). Si caratterizzano, per il tramite dell’autonomia statutaria, per la presenza di azioni rigorosamente nominative, per la variabilità del capitale sociale (valore dell’azione legato al patrimonio netto), per la responsabilità limitata, per il voto capitario. Lo status di socio rappresenta originariamente l’indispensabile condizione per l’accesso al credito. Si distinguono dalle “rurali” per finanziare prevalentemente famiglie, piccole e medie imprese “cittadine”, terziario; dai Monti di Pietà e dalle Casse di risparmio per la natura del finanziamento (non “sovvenzioni” ma erogazione del credito basata sul giudizio valutativo concernente la capacità del sovvenuto di far fronte, nel corso del tempo, agli obblighi di rimborso del finanziamento accordatogli; attività codesta propria, negli indicati termini, dello specifico oggetto sociale dell’impresa bancaria).

Registrano una forte crescita numerica e dimensionale fino a dopo il primo conflitto mondiale, conquistando un quinto del mercato bancario nazionale. Segue il parziale declino successivo alla crisi del ’29, principalmente a causa del processo di industrializzazione del paese e alla conseguente maggiore attenzione alle sorti della grande industria. Nel secondo dopoguerra, la virtuosa relazione “circolare” che si sviluppa tra piccole – medie imprese, loro consolidamento nella struttura di economia reale del Paese anche per via del credito assicurato da banche attente alle esigenze del territorio, determina il definitivo e stabile “successo” del modello organizzativo in discorso. Seguono più consistenti incrementi dimensionali e concentrazioni anche per il tramite della quotazione dei relativi titoli all’interno del “mercato ristretto”, istituito nel corso degli anni ’70. I costi operativi, superiori alla media di tali “aziende di credito” (vigeva all’epoca la distinzione, poi rimossa, con gli istituti di credito speciale) erano più che compensati dalla maggiore efficienza allocativa nel ritorno degli investimenti in ragione dell’effetto reputazionale sui sovvenuti del mancato rientro dall’esposizione.

Ancora agli inizi di questo millennio, una importante ricerca edita nel 2004 in un volume monografico della rivista Credito popolare ne esaltava, oltre ai risultati empirici, il modello di governance (proprietà “diffusa” vs. proprietà “concentrata”, propria dell’assetto societario italiano), idoneo a sottrarre gli amministratori a condotte di c.d. “shortermist” e, per questa via, a determinare una maggiore protezione degli azionisti “esterni” al controllo, ancorché potessero (almeno teoricamente) ravvisarsi problemi di autoreferenzialità (à la Berle e Means) anche in ragione della minore esposizione a minaccia di take – over.

Le principali differenze rispetto a omologhi modelli continentali sono rinvenibili: 1) nella circostanza che mentre nelle popolari il valore dell’azione riflette quello dell’impresa, nelle unioni di credito tedesche il valore è fisso con riferimento al tempo dell’emissione, agendo le singole banche all’insegna di una stretta sussidiarietà e territorialità, con mantenimento di dimensioni contenute; 2) in altri similari modelli (es. credit mutuel francese) l’esborso per l’acquisizione della qualità di socio è estremamente contenuto. Ciò determina la ricorrenza di vincoli normativi all’accantonamento (principalmente a riserve) di gran parte degli utili. Per contro, nelle popolari è prevista la sottoscrizione di una quota di partecipazione di valore significativo cui corrispondono minori limitazioni nella destinazione dell’utile e, anzi, la ricorrenza di politiche di bilancio particolarmente attente alla distribuzione dei dividendi; 3) complemento di tale impostazione è il diritto, nel caso di recesso, alla sola restituzione degli importi versati a titolo di partecipazione, senza alcuna estensione a ulteriori importi vincolati a riserve legali o statutarie. Non così invece per le popolari, dove il valore dell’azione è annualmente adeguato all’ammontare del patrimonio netto; 4) sul piano dei controlli, è altrove rilevante il ruolo affidato agli organismi centrali delle banche cooperative che tende a rafforzare legami strategici piuttosto che (come in Italia) a incentivare meccanismi concorrenziali tra appartenenti alla categoria.

Lo statuto normativo delle “popolari” si compone di tre insiemi disciplinari certi e di uno eventuale. Quelli certi sono rappresentati, nell’ordine, dalla disciplina speciale (perciò prevalente) del Tub (artt. 29 – 32); da quella della società cooperativa (rivestendo le popolari la forma giuridica di “società cooperative per azioni”, art. 29, co. 1 Tub), al netto delle disposizioni direttamente o indirettamente incompatibili con questo tipo societario (sono dichiaratamente incompatibili quelle indicate dall’art. 150 – bis del Tub); da quella della società per azioni in quanto compatibile ex art. 2519, co. 1, cod. civ. A tali norme (o segmenti di disciplina) si aggiungono le regole altrettanto speciali del Tuf quando la società abbia titoli quotati in mercati regolamentati o solleciti il risparmio in maniera “rilevante” (art. 116). Espressione della forma cooperativa dell’impresa sono gli istituti del limite al possesso azionario (art. 30, co. 2, Tub); del voto capitario (art. 30, co. 1, Tub); del numero minimo di soci (art. 30, co. 4, Tub); del “gradimento” per l’ammissione a socio (art. 30, co. 5, Tub), della variabilità del capitale (art. 2524 cod. civ.) e sotteso principio della c.d. “porta aperta”. Indicatori importanti della ricorrenza di frammenti disciplinari della società per azioni sono, per un verso, la possibilità di scelta di modelli di amministrazione e controllo diversi da quello “latino” (pur nei limiti fissati dall’art. 2544, co. 2, cod. civ.) e, per altro verso, la formalizzazione del superamento della natura unitaria del titolo azionario attraverso la distinzione tra diritti corporativi e diritti patrimoniali (art. 30, co. 6) a fini di libera circolazione dei titoli (e sottesa possibilità di quotazione in mercati regolamentati).

Dal riferito assetto discende la natura fondamentalmente ibrida dell’impresa, connotata da una causa insieme lucrativa e mutualistica.

La prima è di piana evidenza sol che si rifletta (oltre che sulla scomposizione dei diritti azionari, con conseguente identificazione delle due distinte categorie soggettive di “soci” e “azionisti”) sulla partecipazione al capitale di fondazioni e organismi di investimento collettivo in valori mobiliari (con superamento dei limiti quantitativi al possesso azionario) e sull’assenza di vincoli alla distribuzione degli utili, in essere per contro nelle banche di credito cooperativo, visto che (al netto della destinazione del dieci per cento degli utili netti annuali a riserva legale) questi potranno ben essere distribuiti ai soci in forma di dividendo.

La seconda sconta invece, da sempre, opinioni divergenti di dottrina e giurisprudenza. Il “mantra” è rappresentato dalla nota sintesi verbale di Ferri (nel tempo degradata a vero e proprio slogan) a mente della quale, “le banche popolari avrebbero la forma della cooperativa ma non ne riprodurrebbero la sostanza”. Confesso, sul piano personale (naturalmente, per mia manifesta incapacità), di non aver mai compreso il senso dell’affermazione in quanto, da un lato, non mi consta che l’art. 45 della Carta costituzionale (né il codice civile) specifichino l’essenza della mutualità (che mancherebbe nelle “popolari”) e, dall’altro, che la riconduzione di questa alla assenza di “fini di speculazione privata” (che è il limite negativo della disposizione costituzionale) finirebbe, se rigorosamente interpretata, per revocare in dubbio la natura mutualistica di una consistente e senza dubbio maggioritaria aliquota del fenomeno cooperativo in essere nel nostro Paese. Trovo perciò che far coincidere, sul piano euristico, mutualità con “gestione di servizio” (scilicet, tutela prevalente dell’interesse del socio alla concessione del credito o alla prestazione di servizi con risparmio di spesa) sia (mancando una nozione legale dello scopo mutualistico) per lo meno discutibile, specie in ambito finanziario, laddove non è il mero dato quantitativo della prevalenza dell’operatività con i terzi (piuttosto che con i soci) a fare la differenza (con le società lucrative), quanto piuttosto l’appetibilità della partecipazione in un organismo che, in quanto caratterizzato da regole di “democrazia azionaria” e di solidarismo sociale, sia idonea a consentire l’accesso del risparmio popolare al diretto investimento azionario a fini di partecipazione effettiva all’impresa (art. 47, co. 2, Cost.). La compresenza di azionisti (anche “istituzionali”) non osta a tale prospettazione funzionale della causa mutualistica se solo si pensi al ruolo rivestito dai “soci sovventori” nelle dinamiche della stessa s.p.a.

Alle disposizioni sulle cooperative e a quelle sulla società per azioni si sommano (con caratteristiche prevalenti) le regole pubblicistiche del Tub che, trovando la propria ragione d’essere nell’assicurare la sana e prudente gestione della banca, sono strutturalmente neutre rispetto alla causa del contratto d’impresa. Convengo pertanto con l’autorevole valutazione di Costi che anche la recente riforma “non mira né a favorire lo scopo mutualistico dei soci né l’intento lucrativo che li può muovere”, preoccupandosi invece della stabilità della banca e, solo indirettamente a questo fine, sacrificando lo scopo mutualistico per favorire lo scopo lucrativo.

Per intuibili ragioni (anche legate ai procedimenti in essere presso il giudice delle leggi) non mi è dato intrattenermi (e, meno che mai, esprimere opinioni) né sul segmento di riforma inerente alla trasformazione obbligatoria in s.p.a. per le popolari con attivi superiori agli 8 miliardi di euro né sulle limitazioni al diritto di recesso.

Precisato questo, ricordo che le principali deviazioni dalla (e) disciplina (e) di diritto comune erano rappresentate: 1) dalla deroga al principio della porta aperta ex co. 5 – bis sub art. 30 Tub, nella parte in cui legittima lo statuto (per favorire la patrimonializzazione della società) a subordinare l’ammissione a socio (oltre che a requisiti soggettivi) al possesso di un numero minimo di azioni; 2) dalla trasformazione in s.p.a. “nell’interesse dei creditori, per rafforzamento patrimoniale ovvero a fini di razionalizzazione del sistema”; 3) nel richiamo all’”interesse della società” quanto alla motivazione del rigetto delle domande di ammissione a socio, che richiama la concezione istituzionalistica dell’impresa (“far navigare i battelli sul Reno”).

A queste prescrizioni, la riforma portata dalla l. n. 33 del 24 marzo 2015 aggiunge: 1) l’espunzione dall’art. 150 – bis del Tub del richiamo all’art. 2526 cod. civ., con conseguente possibilità per le popolari di emettere strumenti finanziari partecipativi e non partecipativi e accentuazione del momento lucrativo dell’impresa; 2) la possibilità che gli amministratori possano essere anche tutti non soci (per via dell’inapplicabilità alle popolari dell’art. 2542, co. 2, cod. civ.); che le persone giuridiche (ex art. 2538, co. 3, cod. civ.) possano avere più di un voto; che i portatori di strumenti finanziari possano votare in assemblea (sia pure nei limiti del terzo dei voti spettanti ai soci) e che lo statuto possa loro attribuire il diritto di nominare un terzo dei componenti l’organo di controllo; 3) la possibilità per lo statuto di prevedere deleghe di voto conferite a ogni socio in numero non inferiore a dieci e non superiore a venti (prima entro il massimo di dieci); 4) infine, appunto, la limitazione al diritto di recesso introdotta dal comma 2 ter sub art. 28 Tub, a norma del quale “il diritto al rimborso delle azioni nel caso di recesso, anche a seguito di trasformazione o di esclusione del socio, è limitato secondo quanto previsto dalla Banca d’Italia, anche in deroga a norme di legge, laddove ciò è necessario ad assicurare la computabilità delle azioni nel patrimonio di vigilanza di qualità primaria della banca. Agli stessi fini, la Banca d’Italia può limitare il diritto al rimborso degli altri strumenti di capitale emessi”. Banca d’Italia ha precisato che sarà lo statuto ad attribuire all’organo di gestione il potere di limitare o rinviare il rimborso delle azioni sulla scorta della situazione prudenziale della banca. Qualora si decida di procedere al rimborso, occorre previamente sottoporre l’operazione all’autorità di vigilanza.

Soprattutto, il nuovo art. 31 del Tub favorisce espressamente trasformazioni delle popolari in società per azioni o fusioni da cui risultino società per azioni attraverso modifiche dei quorum assembleari (di assemblea straordinaria) deliberativi e, soprattutto, costitutivi (in seconda convocazione, “con la maggioranza di due terzi dei voti espressi qualunque sia il numero dei soci intervenuti all’assemblea”) tesi a evitare che soci organizzati possano boicottare l’assemblea evitando di partecipare alla stessa. Ove si consideri che, diversamente dal passato, l’autorizzazione (preventiva) alla fusione della Banca d’Italia sconta la sola valutazione dell’assenza di elementi ostativi alla “sana e prudente gestione” dell’impresa (ex art. 57 Tub) e non invece la sussistenza dell’interesse dei creditori, ovvero quella del rafforzamento patrimoniale o di razionalizzazione del sistema, per un verso; che, per altro verso, nel caso di trasformazione in s.p.a., ricorre (ex art. 56 Tub) non già una vera e propria autorizzazione quanto piuttosto un mero accertamento preventivo di inesistenza di contrasti con la sana e prudente gestione, il percorso verso determinazioni della specie appare semplificato quanto, in consistente misura, incentivato.

I rimedi delineati dalla legge riformatrice consentono di meglio identificare (attraverso una metodologia d’analisi di stampo induttivo) le principali cause delle crisi di questo modello d’impresa bancaria. Queste consistono fondamentalmente nel capovolgimento di prospettiva che, in ragione dell’evoluzione del mercato creditizio e finanziario, ha progressivamente trasformato i punti di forza delle popolari in punti di debolezza. Primo fra tutti, la struttura di governance ad azionariato diffuso che, con la crescita dimensionale sollecitata dal modello di banca universale, ha evidenziato tutti i limiti dei costi c.d. “di agenzia” rivenienti, per un verso, dall’attivismo di specifiche associazioni di soci le quali (grazie al voto capitario, ai limiti alle deleghe di voto, a sistemi di voto di lista con premio di maggioranza) possono porre in essere ingerenze ostruzionistiche tese a tutelare interessi corporativi piuttosto che imprenditoriali in senso lato; per altro verso, dalla nomina di amministratori e manager di loro stretta derivazione i quali, nella logica dello scambio, di fatto controllano l’assemblea e, per questa via, sono sottratti a ogni controllo sul loro operato tanto maggiore quanto progressivamente distante dal territorio è il fulcro dell’attività d’impresa. Ciò segnatamente in un contesto nel quale le differenze rispetto al dominante modello di proprietà concentrata dovrebbero far prevalere esigenze di controllo dell’indipendenza degli amministratori piuttosto che l’introduzione di strumenti a tutela dell’azionariato “esterno” al controllo, come invece è avvenuto (si rifletta, di nuovo, sul voto di lista), che possono trasformarsi in un pericoloso boomerang. Anche nei casi di contiguità operativa nell’ambito del territorio, la stabilità dell’organo gestorio, la sua autoreferenzialità riveniente dalla sostanziale assenza di un market for corporate control può peraltro determinare “remore al forzare la clientela a intraprendere dolorose scelte di ristrutturazione” (Passacantando) se non veri e propri rischi “di cattura”, tali da “compromettere l’oggettività e l’imparzialità delle decisioni di finanziamento” (Barbagallo). Segue (ma solo sul piano concettuale, essendone concausa pariordinata) la disciplina dei requisiti patrimoniali più restrittivi portata dalla nuova regolamentazione di Basilea (c.d. Basilea 3), con conseguenti iniziative di ricapitalizzazione più difficilmente attuabili a fronte dei vincoli normativi sottesi al modello cooperativo.

Se corretta è l’analisi svolta, le conclusioni non possono che essere nel senso che la crisi del modello fin qui vigente di banca popolare impone un radicale ripensamento sulle politiche aziendali, sulle prospettive di crescita e sulle dimensioni favorito (non certo ostacolato) dalla recente riforma, segnatamente grazie alle maggiori libertà di scelta del tipo societario più adeguato alle concrete esigenze dei soci e, nel caso di mantenimento della vigente struttura, attraverso maggiori efficienze in ordine alla possibilità degli azionisti di svolgere un più accurato scrutinio sull’operato del management.