approfondimenti/regolazione
Il bail – in e la disciplina di risanamento degli enti creditizi. (*)

La pratica del bail-in esclude, oltre ai depositi fino a 100 mila euro, le passività garantite; i beni di proprietà di terzi (cassette di sicurezza o titoli rubricati in conti della clientela); le passività interbancarie e di pagamento con durata inferiore a 7 giorni; i debiti verso i dipendenti. Occorre però osservare che senso comune e percezione ampiamente diffusa tra i consociati vogliono che il denaro depositato appartenga (continui ad appartenere) non alla banca depositaria ma al depositante, in ragione della prevalente funzione di custodia che connota l’accordo. Se allora il discrimine rispetto a talune delle passività escluse dal bail- in risiede nella riconduzione delle stesse a diritti proprietari (si pensi alla detenzione di beni della clientela depositati in cassette di sicurezza, ai titoli e strumenti finanziari detenuti in conti della clientela etc.), diviene difficile comprendere (anche alla luce dell’art. 47 Cost.) la ragione del sacrificio dei depositi in passività monetarie superiori ai cento mila euro, in ragione della possibile disparità di trattamento tra creditori. In particolare, se la procedura di risoluzione non mira alla definitiva estinzione dell’impresa, dovendo invece provvedere al suo risanamento ovvero al trasferimento delle relative attività e passività (con o senza un ente – ponte) a un soggetto terzo, il credito alla restituzione (che non si converte in credito nei confronti della massa) viene irragionevolmente escluso (diversamente da altri diritti) nei confronti della società cessionaria dei relativi rapporti. Cosa, quest’ultima, totalmente diversa da ipotesi similari ricorrenti nel nostro (e in altri) ordinamento (i) (fusioni, scissioni, cessioni di rami d’azienda etc.).

Giuseppe Leonardo Carriero
Carriero

La disciplina europea (portata dalla direttiva 2014/59 Ue e dal regolamento 806/201 del 10 luglio 2014) e domestica di recepimento (di cui al d. lgs. n. 180 del 16 novembre 2015) in materia di “salvataggio interno” delle banche in crisi rivestono (soprattutto nel nostro Paese) carattere fortemente innovativo rispetto a quelle previgenti. Sono assurte a oggetto di serrato dibattito critico soprattutto in ragione della parziale anticipazione di cui al d. l. 22 novembre 2015, n. 183 (c.d. decreto “salva banche”, convertito dalla legge di stabilità del 2016) relativo al salvataggio delle note quattro banche in dissesto (Popolare Etruria, Banca Marche, CariChieti, CariFerrara) attraverso le procedure approntate dalla Banca d’Italia con il conferimento delle relative attività e passività a un ente ponte e, soprattutto, con il contestuale azzeramento, oltre che delle azioni, delle obbligazioni subordinate emesse dai predetti istituti al fine di assorbire la situazione di patrimonio netto negativo. L’attenzione riservata, atteso il tempo trascorso dagli atti comunitari e dal relativo dibattito, si è rivelata manifestamente tardiva (degna della migliore Alice nel paese delle meraviglie) non solo da parte di politici, governo, istituzioni (che hanno concorso all’approvazione di quegli atti senza comprenderne il significato e dell’assordante silenzio sui relativi, dirompenti effetti), ma degli stessi giuristi, nel frattempo distratti da usure, anatocismi, commissioni di massimo scoperto. Temi nobilissimi quanto tuttavia (economicamente e socialmente) “minori” rispetto a quelli.

I motivi della “specialità” statutaria dell’impresa bancaria sono noti. Questa realizza il suo specifico oggetto sociale (raccogliere fondi rimborsabili per erogare credito) grazie alle sue caratteristiche fiduciarie. La contestuale “corsa agli sportelli” da parte di tutti i depositanti non potrebbe consentire l’adempimento degli obblighi restitutori. Nell’operare sui mercati monetario, finanziario, dei pagamenti è fisiologicamente interconnessa con altri intermediari creditizi e finanziari. La sua insolvenza (o solo la sua illiquidità) si trasmette, in ragione di tali rapporti, agli altri operatori, generando il c.d. “effetto domino” o “rischio sistemico”. Il presidio è rappresentato dalle Banche centrali, alle quali spetta il delicato compito di preservare il rischio sistemico attraverso il credito di “ultima” istanza (che viene erogato quando il credito di altri operatori è denegato), previe idonee garanzie. Nel relativo svolgimento, queste dovranno sceverare l’illiquidità dalla vera e propria insolvenza, concedendo credito solo al ricorrere della prima ipotesi, pena altrimenti il moral hazard e la stessa negazione dei principi fondativi dell’economia capitalistica di mercato (l’espulsione degli imprenditori incapaci; la negazione della “distruzione creatrice”).

La crisi del 2008 ha revocato in dubbio l’efficacia di questo tradizionale assetto. Il salvataggio ad opera della Fed (del marzo di quell’anno) di Bear Stearns aveva convinto il mercato che nemmeno Lehman sarebbe stata lasciata cadere. Avvenne il contrario, “con un mutamento di rotta radicale nel credito di ultima istanza, imprevisto dal mercato, che sconvolse il mercato” (Ciocca, La banca che ci manca, Roma, 2014, p. 93 ss.). Due giorni dopo il crollo la Fed prestava ad Aig 85 miliardi di dollari per evitarne l’insolvenza. Vendere Lehman a Barclays sarebbe costato tra i 12 e i 60 miliardi di dollari. La “lezione” che da ciò si trasse, a fronte di crisi “sistemiche”, fu che esistevano ormai intermediari too big too fail (troppo grandi per fallire), generati dall’abbattimento delle barriere previgenti (tipo Glass Stagall o legge bancaria del ’36) e dal conseguente primato del modello di banca tuttofare. Ciò rendeva dubbia l’efficacia dello strumento, atteso che credito di ultima istanza e banche centrali possono non essere sufficienti allo scopo perché ondivaghi (USA) o perché (ancora) non dotate di quei poteri (BCE). Il risultato è consistito, per un verso, nel ridimensionamento (e nella procedimentalizzazione) del credito di ultima istanza (con la riforma della Section 13 del Federal Reserve Act); per altro verso, nella creazione (sull’altra sponda dell’Atlantico) di una disciplina tesa ad evitare che il conto delle crisi sia posto a carico del debito pubblico e perciò dei contribuenti.

Il “meccanismo” di risoluzione unico delle crisi rappresenta il c.d. “secondo pilastro” dell’Unione Bancaria Europea, che si affianca al “meccanismo unico     di vigilanza” (regolamento n. 1024/2013) e al “sistema unico di garanzia dei depositanti”, ancora da definire nel dettaglio. Suppone un’autorità centralizzata a livello UE (il Comitato Unico di risoluzione) e autorità di risoluzione nazionali. Per le banche di maggiori dimensioni è il Comitato a individuare le modalità attraverso le quali affrontare le crisi, spettando alle autorità nazionali l’attuazione del programma di interventi. Negli altri casi saranno le autorità nazionali di risoluzione a pianificare e gestire le crisi secondo le linee definite dal Comitato. E’ contemplata la costituzione di un fondo di risoluzione unico alimentato negli anni dai contributi versati dalle banche per finanziare l’applicazione delle misure di risoluzione.

Il presupposto è rappresentato dalla internalizzazione delle perdite. Essendo la risoluzione una procedura (fondamentalmente amministrativa) di ristrutturazione/risanamento non concorsuale (Lener, Profili problematici del bail – in, in FCHUB, 2 febbraio 2016) tesa a evitare effetti contrari alla stabilità finanziaria, la valutazione pregiudiziale verte sull’accertamento che tali obiettivi non potrebbero essere conseguiti nella stessa misura dal normale procedimento di liquidazione e/o di insolvenza. Il meccanismo, attivabile dall’autorità di risoluzione, prevede la possibilità di svalutazione o di conversione (bail – in) delle passività della banca al fine della sua ricapitalizzazione, con sacrificio: 1) degli azionisti, che sostengono le perdite per primi; 2) dei creditori non garantiti; 3) dei depositanti oltre i 100 mila euro. Ciò all’alternativo fine di agevolare la vendita dell’ente; di ripristinare le condizioni per l’esercizio dell’attività; per dotare del capitale sufficiente l’eventuale ente – ponte (bridge – bank). Sono esclusi dal bail – in, oltre ai depositi fino a 100 mila euro, le passività garantite; i beni di proprietà di terzi (cassette di sicurezza o titoli rubricati in conti della clientela); le passività interbancarie e di pagamento con durata inferiore a 7 giorni; i debiti verso i dipendenti etc. Principio che regge questo sacrificio è quello che nessun creditore debba sostenere perdite più ingenti di quelle che avrebbe sostenuto se l’ente fosse stato liquidato (no creditor worse off).

Il ricorso al fondo è soggetto al previo esaurimento della capacità interna di assorbire le perdite e all’approvazione degli aiuti di Stato da parte della Commissione al ricorrere dei due requisiti di: 1) di aver esaurito la capacità interna di assorbimento delle perdite per un ammontare non inferiore all’8 per cento delle passività; 2) che il contributo del fondo non ecceda il 5 per cento delle passività totali. Gli aiuti di Stato sono per la Commissione (Comunicazione del luglio 2013) possibili solo per porre rimedio a un grave turbamento dell’economia di uno Stato membro. Negli stessi termini è ammessa la concessione di emergency liquidity assistance (ELA), vale a dire di credito di ultima istanza, da parte della BCE.

Con il d. lgs. n. 180/2015, la Banca d’Italia è designata autorità di risoluzione dello Stato (art. 3). Predispone, in quanto tale, piani di risoluzione per ciascuna banca non sottoposta a vigilanza su base consolidata (art. 7). I presupposti della risoluzione sono rappresentati dalla condizione di dissesto o dal rischio di dissesto insieme all’assenza di misure alternative che permettano di superare tale situazione in tempi adeguati (art. 17). Principio cardine della risoluzione è quello che nessun azionista e creditore possa subìre perdite maggiori di quelle che subirebbe se l’ente fosse liquidato sulla scorta delle disposizioni in materia di liquidazione coatta amministrativa (art. 22). La cessione all’ente – ponte (o a società diversa) riguarda diritti, attività e passività (art. 42) ma gli azionisti e gli altri creditori sottoposti a bail – in non possono esercitare pretese sui diritti, sulle attività e passività oggetto della cessione (art. 47). Possono essere escluse, in tutto o in parte, dall’applicazione del bail – in passività diverse da quelle prima indicate al verificarsi di particolari condizioni (art. 49). Quando una passività è interamente cancellata, gli obblighi a carico dell’ente sottoposto a risoluzione sorti in relazione alle passività sono estinti e il loro adempimento non può essere chiesto nell’ambito di successive procedure relative all’ente sottoposto a risoluzione, né al suo avente causa (art. 57).

La storia economica del nostro Paese insegna come (almeno dal secondo dopoguerra in poi) i costi dei salvataggi bancari a carico del bilancio pubblico sono risultati decisamente inferiori a quelli sopportati da altri Stati ad avanzata economia di mercato (Carriero, Ciocca, Marcucci, Diritto e risultanze dell’economia nell’Italia unita, in AA.VV., Storia economica d’Italia, Bari, 2003, p. 510 ss.). Né va omesso di ricordare l’elevata e decisamente (rispetto ad altri Paesi) maggiore aliquota del risparmio privato, la quale di fatto determina una sostanziale coincidenza tra risparmiatore e contribuente (che sono, “in media e in realtà, la stessa persona”) (Ciocca, L’Espresso del 12 febbraio 2016).

Precisato questo, giova osservare come senso comune e percezione ampiamente diffusa tra i consociati vogliono che il denaro depositato appartenga (continui ad appartenere) non alla banca depositaria ma al depositante in ragione della prevalente funzione di custodia che connota l’accordo e il conseguente trasferimento. Il trasferimento formale della proprietà deriva, a ben vedere, dalla natura del bene trasferito (il denaro), il quale (diversamente dalla semina nel campo dei miracoli di Pinocchio) è strutturalmente fruttifero. Che la posizione della banca sia diversa rispetto a quella del proprietario (avvicinandosi invece a quella del mero detentore) è peraltro concretamente confermato dalla circostanza che essa sia tenuta all’obbligo di restituzione di quanto depositato (in tutto o in parte) dietro semplice richiesta del depositante, con il solo limite dell’osservanza del periodo di preavviso eventualmente convenuto. Se allora il discrimine rispetto a talune delle passività escluse dal bail-in risiede nella riconduzione delle stesse a diritti proprietari (si pensi alla detenzione di beni della clientela depositati in cassette di sicurezza, ai titoli e strumenti finanziari detenuti in conti della clientela etc.), diviene difficile comprendere (anche alla luce dell’art. 47 Cost.) la ragione del sacrificio dei depositi in passività monetarie superiori ai cento mila euro (che abbraccia non le sole famiglie ma le stesse imprese) in ragione della possibile disparità di trattamento tra creditori.

E tuttavia, anche a voler aderire (in ordine ai depositi bancari come alle obbligazioni convertibili) a una nozione allargata di proprietà, idonea a comprendere nel proprio ambito tali beni, si osserva che il risultato non sarebbe dissimile. Ciò in quanto l’eventuale dubbio di conformità della disposizione del d. lgs. 180/2015 all’art. 42 Cost. in punto di espropriazione senza indennizzo sarebbe sterilizzato dal rilievo che, trattandosi di beni c.d. “di secondo grado” il cui valore “costituisce sempre una grandezza derivata che dipende da quello del patrimonio dell’impresa” (Guizzi, Il bail – in nel nuovo sistema di risoluzione delle crisi bancarie, ne Il corriere giur., 2015, p. 1485 ss.), poiché la risoluzione è disposta quando la banca è in dissesto o a rischio di dissesto, l’indennizzo dovuto risulterebbe conseguentemente uguale a zero, vale a dire al “valore del bene espropriato che si esprime, in termini monetari, in quella medesima misura”. Il suggestivo e acuto argomento, utile forse a contraddire l’indicato profilo di costituzionalità della norma in una prospettiva circoscritta ai considerati rapporti, non appare tuttavia decisivo a sgombrare il campo dai dubbi sottesi al rimedio adottato sotto versanti comparativi, di logicità e ragionevolezza del sistema di risoluzione con riguardo all’insieme dei rapporti coinvolti dalla disciplina. In particolare, se la procedura di risoluzione non mira alla definitiva estinzione dell’impresa, dovendo invece provvedere al suo risanamento ovvero al trasferimento delle relative attività e passività (con o senza un ente – ponte) a un soggetto terzo, il credito alla restituzione (che non si converte in credito nei confronti della massa) viene irragionevolmente escluso (diversamente da altri diritti) nei confronti della società cessionaria dei relativi rapporti. Cosa, quest’ultima, totalmente diversa da ipotesi similari ricorrenti nel nostro (e in altri) ordinamento (i) (fusioni, scissioni, cessioni di rami d’azienda etc.). Deriva da ciò la espunzione ex lege, limitatamente a questa categoria di creditori, del principio di responsabilità patrimoniale sancito dall’art. 2740 cod. civ., difficile da giustificare sotto il versante della coerenza con il principio di uguaglianza e con quello della tutela del risparmio (soprattutto “inconsapevole”). Senza considerare che appare quanto meno problematico che la procedura di risoluzione possa essere applicabile alle banche “troppo grandi per fallire”, mentre non è dubbio che piccoli azionisti (ma, soprattutto depositanti e obbligazionisti incolpevoli) possano essere chiamati a pagare il conto non di fenomeni di mala gestio, quanto piuttosto di “sofferenze” derivanti da eccesso di operazioni in derivati finanziari. Ho in passato ricordato (Carriero, Banche e rischio di credito, in Dir. banc., p. 544 ss.), quanto alle cause della crisi, come la “miopia finanziaria” che si è sommata alla “miopia macroeconomica” trovi esauriente testimonianza nel commiato di Alan Greenspan di fronte ai banchieri centrali europei al termine del suo mandato alla guida della Federal Reserve americana. “Quella di Greenspan voleva essere una battuta di spirito, ma si è rivelata un’esatta fotografia di ciò che si sarebbe verificato. Il banchiere USA spiegò di aver lasciato al suo successore tre buste, una per ogni futura crisi. Nella prima c’era scritto ‘dai la colpa al mercato’ e nella seconda ‘dai la colpa al governo’. Nella terza, infine, ‘prepara tre buste” (Paronetto, Il Sole 24 ore del 16 dicembre 2009). Non mi sembra che il descritto scenario portato dalla inedita (quanto discussa) disciplina europea sia in grado di fugare il ripetersi dell’incertezza a fronte di crisi future.

(*): Sintesi della conferenza tenuta a Tor Vergata il 6 aprile 2016 nell’ambito della Cattedra di Diritto dei Mercati Finanziari.