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Crisi bancarie e prime esperienze di risoluzione “assistita” da fondi: il primo intervento del Fondo nazionale di risoluzione

Il percorso italiano verso la risoluzione bancaria ha conosciuto un’importante accelerazione negli ultimi giorni. Il 18 novembre 2015 è stato istituito un Fondo Nazionale di Risoluzione alimentato con contributi versati dalle banche. Che rapporti intercorrono tra il nuovo Fondo Nazionale di Risoluzione e l’istituendo Single Resolution Fund:? Il Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi ha un ruolo nella risoluzione?

Edoardo Rulli
Rulli

Nel linguaggio giuridico in auge sino a pochi anni fa la banca in crisi doveva essere liquidata oppure, se troppo grande per fallire, poteva essere salvata con i soldi dei contribuenti(bail-out). Ora, invece, le crisi bancarie devono essere risolte (bank resolution) e le banche possono, ma non necessariamente devono, essere liquidate. L’importante è che non siano salvate con risorse pubbliche perché gli interventi del passato hanno alimentato i deficit di bilancio di molti Stati Ue e drogato il mercato dei servizi bancari in violazione della disciplina sugli aiuti di Stato.

Nei paesi dell’area Euro sono già in vigore alcuni importanti provvedimenti. Si tratta del Reg. UE/1024/2013 che ha istituito il meccanismo di vigilanza unico (SSM) e del Reg. UE/806/2014 che istituisce, a partire dal prossimo 1 gennaio 2016, il meccanismo di risoluzione unico (SRM). Ad essi si aggiungono due importanti direttive che non riguardano solo l’Eurozona e i paesi che si avvalgano dell’opt-in, ma tutti gli Stati membri. Si tratta della nuova disciplina sulla garanzia dei depositi UE/2014/49 (DGSD), da recepire in Italia nel 2016, e della direttiva UE/2014/59 sul risanamento e la risoluzione bancaria. Le misure richiamate si inseriscono nel più articolato contesto delineato dall’Unione bancaria e sono destinate a trovare applicazione in concorso con altri provvedimenti, tra cui merita qui segnalare le regole di Basilea accolte nel diritto dell’Unione attraverso la direttiva 2013/36/UE(CRD IV) e il Reg. 575/2013 (CRR).

La risoluzione “in pratica”. Il Fondo Nazionale di Risoluzione.

Il percorso italiano verso la risoluzione bancaria ha conosciuto un’importante accelerazione negli ultimi giorni.

Il 16 novembre è stata recepita in Italia la direttiva sul risanamento e la risoluzione bancaria (BRRD, UE/2014/59). Le misure nazionali di recepimento sono le seguenti:

– il d.lgs. 180/2015, che disciplina gli strumenti di risoluzione, tra cui il bail-in e, per quanto qui di interesse, i fondi nazionali di risoluzione; e

– il d.lgs. 181/2015, che apporta alcune modifiche al t.u.b. e al t.u.f.

Inoltre, nelle more della piena attuazione delle disposizioni appena entrate in vigore, il governo ha emanato un decreto legge (d.l. 183/2015) per disciplinare alcuni aspetti di dettaglio su cui si tornerà.

Il 22 novembre scorso, a pochi giorni dall’entrata in vigore dei due decreti legislativi richiamati, il Ministero dell’economia e delle finanze ha decretato l’avvio della risoluzione di quattro banche: è il primo caso di applicazione del nuovo istituto in Italia.

La risoluzione prevede che le attività “buone” delle quattro banche siano conferite in quattro bridge bank sotto controllo pubblico, secondo uno degli schemi previsti dalla BRRD.

La risoluzione delle quattro banche in crisi ha imposto, tuttavia, anche l’intervento di un fondo di risoluzione. Di che cosa si tratta?

Si deve subito avvertire che il fondo utilizzato per garantire la transizione alle banche in crisi non è né il fondo unico di risoluzione previsto dall’SRM (cioè il Single Resolution Fund), né il “nostro” Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi o (FIDT).

Si tratta, infatti, di un patrimonio autonomo che la Banca d’Italia ha costituito ad hoc con provvedimento 18 novembre 2015 (il “Fondo Nazionale di Risoluzione”) applicando, per la prima volta, le previsioni del d.lgs. 180/2015. L’art. 78 del d.lgs. 180/2015, rubricato «Fondi di risoluzione», prevede che «per permettere di realizzare gli obiettivi della risoluzione», la Banca d’Italia possa istituire uno o più fondi di risoluzione, alimentati con contributi versati dalle banche aventi sede legale in Italia e dalle succursali italiane di banche extracomunitarie (Banche Obbligate).

Poiché il fondo non può essere alimentato con risorse pubbliche, è necessario che a fornire la dotazione finanziaria allo stesso siano altre banche in bonis. Ecco consa significa, in pratica, che le banche in crisi non possono essere più essere finanziate dallo Stato ma solo dal “loro mercato” (burden sharing).

In questo senso, il meccanismo previsto dall’art. 78, co.1, del d.lgs. 180/2015 prevede che i fondi di risoluzione siano alimentati da:

a) «contributi ordinari» che le Banche Obbligate devono versare, ai sensi dell’art. 82 d.lgs. 180/2015, con cadenza annuale;

b) «contributi straordinari» che, ai sensi dell’art. 83 d.lgs. 180/2015, le stesse possono essere chiamati a versare se la dotazione finanziaria del Fondo nazionale di risoluzione non è sufficiente a sostenere le misure di risoluzione;

c) prestiti e altre forme di sostegno finanziario, quando i contributi ordinari non sono sufficienti a coprire le perdite, i costi o le altre spese sostenuti e i contributi straordinari non sono prontamente disponibili o sufficienti;

d) somme versate dall’ente sottoposto a risoluzione o dall’ente-ponte, interessi e altri utili derivanti dai propri investimenti.

Poiché la disciplina del d.lgs. 180/2015 è recentissima, il Fondo Nazionale di Risoluzione non ha potuto essere alimentato dai contributi delle Banche Obbligate. Ciò ha imposto alla Banca d’Italia di utilizzare lo strumento del prestito di cui all’art. 78, co.1, lett. c) d.lgs. 180/2015, pensato appunto per ottenere sostegno finanziario da soggetti terzi (comunque banche) e fare fronte all’insufficienza dei contributi ordinari e straordinari.

Per realizzare l’operazione la Banca d’Italia ha inoltre chiesto ad alcune banche obbligate di anticipare il versamento di contributi futuri.

La conseguenza di quanto si è appena detto è che il Fondo Nazionale di Risoluzione nasce indebitato. Ciò, in linea di principio, non sembrerebbe porre particolari problemi. E, tuttavia, li pone se si ha riguardo ai rapporti tra la disciplina del Fondo Nazionale di Risoluzione e quella del Single Resolution Fund (SRF) che inizierà la propria attività il prossimo 1 gennaio 2016.

Fondo Nazionale di Risoluzione e Single Resolution Fund

Il versamento delle risorse nel SRF è stato disciplinato a latere del SRM e, in ogni caso, da alcuni soltanto degli Stati UE (tranne Regno Unito e Svezia) per mezzo di un trattato internazionale denominato «Accordo sul trasferimento e la messa in comune dei contributi al Fondo di risoluzione unico» (IGA) sottoscritto a Bruxelles il 21 maggio 2014 (lo strumento del trattato internazionale si è reso necessario per superare l’argomento, sollevato dalla Germania e da altri paesi del nord Europa, che ritengono che il TUE e il TFUE non offrano una base giuridica idonea a fondare la capacità impositiva del SRF).

Il SRF deve raggiungere in otto anni (entro il 2024) una dotazione totale che si stima intorno ai 55 miliardi di Euro, in modo da garantire una liquidità pari ad almeno l’1% dell’importo dei depositi protetti di tutte le banche dei 26 paesi firmatari.

In questo quadro, con il necessario provvedimento di ratifica del trattato internazionale (l. 26 novembre 2015, n. 188), il parlamento italiano ha dato esecuzione all’accordo sul trasferimento. In particolare, l’IGA all’art. 3 prevede:

– l’impegno dell’Italia «a trasferire in modo irrevocabile» al SRF «i contributi raccolti dagli enti autorizzati nei rispettivi territori … »;

– che il trasferimento iniziale di contributi al SRF sarà effettuato al più tardi entro il 30 giugno 2016;

– che i contributi raccolti prima della data di applicazione dell’IGA siano trasferiti al SRF entro il 31 gennaio 2016; e, infine,

– che qualsiasi importo erogato dal meccanismo di finanziamento della risoluzione prima della ratifica dell’IGA «è dedotto dai contributi che devono essere trasferiti», ma in questo caso si resta comunque vincolati a trasferire al SRF «un importo equivalente a quello che sarebbe stato necessario per raggiungere il livello-obiettivo del finanziamento del suo meccanismo di finanziamento della risoluzione, a norma dell’articolo 102 della direttiva BRR ed entro i termini ivi previsti».

Come è evidente, quest’ultima previsione introduce un legame tra il Fondo nazionale di risoluzione istituito recentemente dalla Banca d’Italia e il SRF.

Posto, come si è detto, che il Fondo di risoluzione nazionale nasce indebitato, è necessario chiedersi:

1) se il legame che si è evidenziato tra il Fondo nazionale e il SRF possa legittimare i creditori del Fondo Nazionale a rivalersi anche sul SRF (se, cioè, vi sia una qualche forma successoria tra i due fondi, posto che lo Stato italiano si è obbligato a trasferire nel SRF i contributi raccolti nel Fondo Nazionale);

2) se, immediatamente o dopo il formale l’avvio del SRF, le Banche Obbligate a versare i contributi nel Fondo Nazionale (e che li hanno già versati, data la richiesta di anticipo della Banca d’Italia) possano rifiutarsi di contribuire al Fondo Nazionale.

Con riguardo al primo problema, sebbene le disposizioni richiamate non indichino chiaramente l’esistenza di un fenomeno di natura successoria, non si può escludere che le pretese verso il Fondo Nazionale possano essere fatte valere nei confronti del SRF. In questo senso sembrano deporre:

– il considerando 108 del Reg. UE/806/2014, laddove si prevede che gli Stati membri partecipanti «che hanno già istituito meccanismi nazionali di finanziamento della risoluzione dovrebbero poter prevedere che questi usino i mezzi finanziari di cui dispongono, ricevuti in passato dalle entità a titolo di contributi ex ante, per compensare le entità relativamente ai contributi ex ante che tali entità dovrebbero versare al Fondo»;

– l’art. 67, par. 1, Reg. UE/806/2014: «È istituito il Fondo di risoluzione unico («Fondo»). Esso è alimentato conformemente alle norme relative al trasferimento dei fondi raccolti a livello nazionale verso il Fondo secondo le modalità stabilite dall’Accordo»;

– il già richiamato art. 3 dell’IGA, ratificato lo scorso 26 novembre, che prevede il menzionato meccanismo di trasmissione dei fondi raccolti a livello nazionale nel SRF.

Con riguardo al secondo problema, mi sembra che si possa affermare che non c’è dubbio che la Banca d’Italia possa chiedere (come ha fatto) alle Banche Obbligate di versare contributi (anche straordinari) per coprire gli impegni assunti dal Fondo fino al 31 dicembre 2015. Se, infatti, così non fosse, le previsioni contenute nel d.lgs. 180/2015 in tema di finanziamento della risoluzione perderebbero di senso e, forse, verrebbe meno la ratio stessa della disciplina contenuta nella BRRD. Peraltro, la disciplina della separazione patrimoniale del Fondo Nazionale e il particolare regime di responsabilità vero i terzi che si è sopra richiamato non avrebbero alcun senso se l’autorità di risoluzione non avesse il potere di alimentare il Fondo.

Quanto al periodo successivo al 1 gennaio 2016, mi sembra che si possa sostenere che ogni dubbio circa l’esistenza del potere della Banca d’Italia di imporre alle Banche Obbligate di alimentare il Fondo Nazionale possa dirsi risolto dall’art. 2, co. 1, del d.l. 183/2015. In tale sede il legislatore italiano ha infatti disposto che dopo l’avvio del SRM, le banche, pur obbligate a versare contributi al SRF, saranno obbligate a versare anche altri contributi al Fondo Nazionale di Risoluzione nel caso in cui quelli già versati in occasione della risoluzione delle quattro banche di cui si è detto «non siano sufficienti alla copertura delle obbligazioni, perdite, costi e altre spese a carico del Fondo di Risoluzione Nazionale».

Fondo Nazionale di Risoluzione e Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi

Un altro profilo (meno) problematico riguarda le possibili sovrapposizioni tra la disciplina del Fondo nazionale di risoluzione e quella del FITD in materia garanzia dei depositi.

Sia la BRRD (artt. 45, 100 e 109) che la DGS (artt. 9, 10 e 11) prevedono che i gli schemi di garanzia dei depositi possano avere un ruolo nella crisi bancaria, anche provvedendo al sostegno finanziario delle operazioni avviate nell’àmbito di una risoluzione.

Tuttavia non pare esserci alcuna osmosi tra il nostro attuale sistema di garanzia dei depositi (FITD) e il Fondo Nazionale di Risoluzione appena istituito dalla Banca d’Italia.

L’aspetto che può ingenerare confusione sta nel fatto che la Banca d’Italia può delegare la gestione dei fondi di risoluzione, in tutto o in parte, ai sistemi di garanzia dei depositanti di cui all’art. 96 t.u.b. e, quindi, al FITD (cfr. art. 78, co. 3, e 80 d.lgs. 180/2015). Si tratta, peraltro, di previsioni del tutto in linea con la disciplina statutaria del FIDT – ove è previsto che esso possa intervenire anche con misure di sostegno (cfr. art. 28 e 29 Statuto) – e con la storia del FITD stesso, dato che esso è in concreto intervenuto nelle operazioni di “salvataggio” bancario in numerose occasioni.

Tuttavia, per espressa previsione di legge, quale che sia la fonte che alimenta il Fondo Nazionale di Risoluzione, esso costituisce un patrimonio autonomo. L’assunto trova conferma nello stesso art. 78, co. 2, ove è espressamente previsto che il Fondo nazionale di risoluzione:

– risponde esclusivamente delle obbligazioni contratte per l’esercizio delle funzioni previste per lo stesso dal d.lgs. 180/2015;

– su di esso non sono ammesse azioni dei creditori della Banca d’Italia o nell’interesse degli stessi, né quelle dei creditori dei soggetti che hanno versato le risorse raccolte nei fondi o nell’interesse degli stessi.

Ne consegue che il FITD può partecipare alla gestione della risoluzione apportando risorse (ma sul punto si deve attendere il recepimento in Italia della DGS) e, in ogni caso, può essere incaricato dalla Banca d’Italia di gestire fondi di risoluzione nazionali, che però restano separati dal fondo di garanzia dei depositanti.