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Controllo sugli atti societari: dal tramonto del giudizio di omologazione al rischio emulazione?

A quindici anni dall’abolizione del giudizio di omologazione, alcune recenti decisioni dei giudici del registro sembrano aprire il campo a forme di controllo più intense sugli atti societari soggetti a pubblicità.

Edoardo Rulli
Rulli

Con l’art. 32 della l. 340/2000 il legislatore italiano ha abolito il vecchio sistema che prevedeva, per l’iscrizione degli atti costitutivi delle società di capitali, un previo giudizio di omologazione da parte del Tribunale che, in sostanza, implicava l’esercizio di un potere di controllo sull’atto e sull’organizzazione delle società di capitali da costituire.

Con la novella del 2000 il legislatore ha sostituito il controllo notarile (artt. 2332 c.c. e 2463 c.c.) al giudizio di omologazione. La riforma rispondeva a due esigenze: dare maggiore speditezza al procedimento costitutivo delle società di capitali e, al contempo, uniformare la disciplina italiana a quella di altri Stati membri (cfr. l’art. 10 direttiva 68/151/CE, che già da tempo lasciava agli Stati membri la facoltà di scegliere tra una forma di controllo preventivo di natura giudiziaria o amministrativa e il controllo notarile).

A quindici anni dall’abolizione del giudizio di omologazione, alcune recenti decisioni dei giudici del registro sembrano aprire il campo a forme di controllo più intense sugli atti societari soggetti a pubblicità.

Un recente provvedimento del giudice del registro di Roma (decreto 15 aprile 2015) offre l’opportunità per svolgere alcune riflessioni sulla natura e sulla latitudine della funzione di controllo che la legge attribuisce al conservatore e al giudice del registro delle imprese. È bene precisare che la questione decisa non riguarda l’iscrizione di una società (pubblicità con effetti costitutivi), ma la cancellazione dell’iscrizione di una delibera di esclusione di socio di srl (pubblicità con effetti dichiarativi).

È opportuno ripercorre, in estrema sintesi, i fatti.

In una srl costituita tra consanguinei per gestire il patrimonio di famiglia, uno dei soci, impossibilitato (temporaneamente) a detenere partecipazioni in società commerciali, trasferisce l’intera propria quota alla coniuge.

Venuto meno il rapporto personale tra i coniugi, e nell’impossibilità di reperire la formale intestataria della quota sociale, la società delibera l’esclusione di quest’ultima con contestuale “retrocessione” della quota al socio “effettivo”. Nella delibera, attesa la simulazione del rapporto sociale, la società non prevede di rimborsare la quota alla socia “fiduciaria” esclusa. Intervengono poi successive delibere.

Ricevuto un successivo atto di trasferimento delle medesime quote, il conservatore del registro rifiuta l’iscrizione e fa istanza al giudice del registro per la cancellazione della delibera di esclusione della socia “fiduciaria” con contestuale retrocessione della quota al socio “effettivo”. Allo stesso giudice pervengono anche due ricorsi da parte della società, nei quali si sostiene la piena regolarità dell’iscrizione della predetta delibera.

Il giudice del registro, con il richiamato decreto, ha disposto la cancellazione dell’iscrizione relativa all’esclusione della socia fiduciaria.

È noto che giurisprudenza e dottrina si sono spesso chieste se il conservatore che riceve una richiesta di iscrizione debba compiere un controllo di mera regolarità formale dell’atto o se tale controllo debba estendersi a valutazioni di natura sostanziale.

Sul punto, il decreto dà conto dell’ormai prevalente orientamento secondo cui il “conservatore del registro delle imprese non ha il compito di sindacare la validità, sotto il profilo civilistico, del contenuto dei provvedimenti da iscrivere nel registro medesimo”. Il giudice, inoltre, afferma che il conservatore è addirittura tenuto a effettuare l’iscrizione obbligatoria di un atto “previo esercizio del solo controllo di regolarità formale, senza possibilità di sindacarne la regolarità sostanziale demandata alla valutazione dell’autorità giudiziaria su impulso dei soggetti interessati e legittimati per legge”.

Il controllo di cui sopra è da ricondurre all’archetipo del controllo di mera legalità, senza che dell’atto di cui si chiede l’iscrizione possa sindacarsi la validità; non compete, infatti, al conservatore il controllo sul merito degli atti di cui si chiede l’iscrizione (si pensi al caso di una delibera assembleare che venga impugnata prima dell’iscrizione al registro delle imprese: il conservatore non potrebbe, per ciò solo, rifiutare l’iscrizione).

Se giurisprudenza e dottrina tendono a convergere sull’impostazione secondo cui il potere di controllo affidato al conservatore non ha carattere sostanziale, ma di sola regolarità formale, è necessario chiedersi che cosa si intenda per regolarità formale. Tanto più ampio, infatti, è questo concetto, tanto più lato è il potere di sindacato che si attribuisce al conservatore (e al giudice).

Il giudice di Roma include nel concetto di controllo di “regolarità formale” le sole valutazioni che riguardano: “competenza dell’ufficio, provenienza e certezza giuridica della sottoscrizione, riconducibilità dell’atto da iscrivere al tipo legale, legittimazione alla presentazione dell’istanza di iscrizione”.

Si tratta di un’impostazione del tutto condivisibile. Si può affermare che non esiste alcun dubbio sulla natura intrinsecamente formale dei controlli sulla competenza dell’ufficio, sulla provenienza della sottoscrizione e sulla legittimazione alla presentazione dell’istanza di sottoscrizione (rispetto ai quali i nuovi obblighi di deposito telematico e i meccanismi di firma digitale alleggeriscono i compiti del conservatore: se provenienza o firmatario non sono riconosciuti dal sistema, infatti, l’iscrizione non può nemmeno esservi immessa).

Merita, invece, un approfondimento il tema del controllo sulla “riconducibilità dell’atto da iscrivere al tipo legale”. Si tratta del c.d. controllo di tipicità, espressamente previsto dal DPR 7 dicembre 1995, n. 581. Quest’ultimo provvedimento, all’art. 11, co. 6, stabilisce che, prima di procedere all’iscrizione, l’ufficio accerta “… la corrispondenza dell’atto o del fatto del quale si chiede l’iscrizione a quello previsto dalla legge”. Si tratta di una previsione importante, perché è sulla base di essa, in combinato con gli artt. 2188 e 2193 c.c., che la giurisprudenza ha individuato nel sistema di pubblicità delle imprese un più generale principio di tipicità degli atti soggetti all’iscrizione nel registro.

In linea con le considerazioni appena svolte, il giudice ha ordinato la cancellazione della delibera di esclusione/retrocessione della quota; delibera che non avrebbe dovuto superare il controllo di tipicità perché: “in nessun caso può affermarsi che l’esclusione di un socio dalla società e la “ammissione” di un altro nella medesima possa importare un vero e proprio trasferimento di una quota sociale da un soggetto ad un altro ai sensi dell’art. 2470 c.c. Né, d’altra parte, tale operazione configura una vera e propria esclusione della socia che comporterebbe la liquidazione della quota in suo favore […]. Né, infine, la società è legittimata ad “assegnare” o ad “ammettere” un socio in luogo di un altro”.

La decisione merita adesione. Restano, tuttavia aperte alcune questioni. Quali elementi dell’atto possono (o devono) essere presi in considerazione dal conservatore per compiere il controllo di tipicità? È sufficiente che questo esamini il nomen iuris dell’atto? O deve esaminarne il contenuto e verificare se lo stesso è, per così dire, sussumibile in qualche specifico modello previsto dalla legge? E, infine, il controllo sugli atti di cui è prevista l’iscrizione a fini costitutivi sono soggetti a un controllo più o meno approfondito di quello dedicato agli atti da iscrivere a meri fini di opponibilità ai terzi?

La questione è tanto più spinosa nei casi in cui la non conformità a un modello legale non sia di immediata evidenza.

È vero che in molti casi il conservatore può facilmente eseguire il controllo di tipicità: si pensi a una richiesta di iscrizione di delibera assembleare da parte di un imprenditore individuale. Un’istanza di questo tipo sarebbe agevolmente respinta dal conservatore, che esaurirebbe il proprio compito verificando l’inesistenza giuridica di un determinato tipo di atto (delibera assembleare) rispetto al soggetto che ne chiede l’iscrizione (imprenditore individuale).

In altri casi, come in quello deciso dal decreto del giudice di Roma, la valutazione è più complessa e richiede una, sia pure sommaria, delibazione della fattispecie. Nel caso in parola il conservatore avrebbe dovuto sindacare la conformità al tipo legale non tanto dell’atto (delibera) che, in quanto tale, è previsto dalla legge, ma del contenuto dell’atto (delibera di esclusione con contestuale retrocessione della quota al fiduciante, senza liquidazione per il fiduciario).

Si tratta di una valutazione certamente rientrante nell’ambito del controllo di tipicità, ma che può rivelarsi non agevole per il conservatore che svolge una funzione amministrativa in senso stretto. Sul punto, per restare in tema di atti che importano il trasferimento di quote di srl, si pensi alle difficoltà interpretative che pone il concetto di “atto di trasferimento”. L’art. 2470, co. 2, c.c., infatti, impone l’iscrizione degli atti di trasferimento di quote, ma di tali atti non esiste un elenco chiuso, con la conseguenza che la diposizione finisce col gravare il conservatore del compito di accertare se un determinato atto produca o meno l’effetto di trasferire una quota di srl. Si tratta di un compito tutt’altro che semplice, come conferma la giurisprudenza del registro che sul concetto di atto di trasferimento è spesso chiamata a pronunciarsi. Tra le decisioni più interessanti, basti richiamare quelle che hanno ritenuto che il concetto di “atto di trasferimento” comprenda le sentenze che accertano la nullità dei trasferimenti o che provvedono al trasferimento coattivo ex art. 2932 c.c. Trib. Pavia, decreto 16 luglio 2012), nonché i lodi, sia rituali che irrituali, che abbiano lo stesso effetto (Trib. Milano, decreto 21 febbraio 2015).

Ma possono ipotizzarsi casi ancora più complessi. Lo spunto viene da una non recentissima decisione del Tribunale di Varese (decreto 31 marzo 2010). Nel caso appena richiamato, il giudice del registro non ha consentito l’iscrizione di una società ritenendo che l’atto costitutivo desse vita in realtà ad un ente di mero godimento: “l’iscrizione, in presenza di una società costituita per il mero godimento di beni, va negata in forza del controllo qualificatorio rimesso al conservatore dall’art. 11, 6° comma, lett. c), D.P.R. 7.12.1995, n. 581 […] Tale controllo qualificatorio, pur non consentendo un sindacato di validità dell’atto, esige una verifica di conformità dell’atto costitutivo della società allo schema essenziale dell’art. 2247 c.c. al fine di accertarne la sussumibilità al modello legale per il quale è prevista l’iscrizione. Il particolare atteggiarsi dell’oggetto sociale, nel caso di specie, rivela pertanto la non sussumibilità della società allo schema di cui all’art. 2247 c.c., trattandosi di una fattispecie che il legislatore relega all’ambito dei rapporti di comunione”.

La mancata iscrizione della società nel caso da ultimo menzionato conferma la misura del problema e suggerisce di adottare ogni cautela verso ogni indebita estensione del concetto di “controllo di tipicità”.

La verifica della rispondenza di un atto a un modello legale richiede sicuramente un’analisi degli effetti che l’atto è destinato a produrre, ma non sembra includere – stando alla lettera della legge – alcuna attività interpretativa del contenuto di tali atti, la quale non può che essere rimessa ad un organo giurisdizionale.

A questa conclusione deve certamente pervenirsi per quanto concerne gli atti la cui iscrizione produce effetti costitutivi, che sono soggetti al preventivo controllo notarile. Un’impostazione altrettanto prudente sembra da preferirsi anche quanto alle iscrizioni a fini di pubblicità dichiarativa, e ciò in ragione del fatto che non si deve perdere di vista la funzione del conservatore, il quale deve garantire la credibilità delle informazioni iscritte al registro delle imprese, ma non anche a sanzionare (civilmente) gli atti lato sensu viziati di cui sia richiesta l’iscrizione.