approfondimenti/Mercato finanziario
Consulenti finanziari indipendenti fermi al via

Introdotta da tempo dal legislatore, la professione resta arenata per la mancanza di un Organismo preposto e per le dispute inerenti la vigilanza. Viene da chiedersi se siano davvero necessarie queste nuove figure professionali. Certo, bisognerebbe almeno provare.

Raffaele Lener
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Sono già passati circa sette anni da quando il legislatore italiano, avvalendosi della c.d. facoltà di esenzione prevista dall’art. 3 della direttiva Mifid del 2004, ha introdotto la figura dei consulenti finanziari in materia di investimenti (inserendo l’art. 18-bis nel Tuf). Da allora, però, ci sono state modifiche legislative (ad esempio, aprendo la consulenza anche alle società, nel 2009) e soprattutto svariate prese di posizione da parte delle Autorità, ma questa figura professionale ancora non ha trovato disciplina e, dunque, non è ufficialmente partita.

Ci si potrebbe a questo punto domandare se davvero servano consulenti finanziari indipendenti. La mancata attuazione della norma potrebbe, in effetti, far pensare che una reale esigenza non vi sia. Tuttavia, se non si dà a questa professione la possibilità di nascere, non è possibile neppure dire se effettivamente serva o se si tratti, ancora una volta, di una delle (non poche) innovazioni legislative degli ultimi anni, concepite in vitro e rivelatesi del tutto inutili.

Certo, non è una professione che potrà avere, almeno all’inizio, spazi molto ampi. Il consulente deve essere indipendente e, conseguentemente, sganciato da emittenti e reti di vendita. C’è dunque un problema di remuneratività del servizio, tanto maggiore in quanto il consulente dovrebbe essere dotato di competenze amplissime, che gli consentano di dare al cliente raccomandazioni mirate, disegnate sulle sue esigenze e non limitate al paniere (per quanto abbondante) di prodotti offerti da un singolo gruppo.

Una professione per pochi, dunque, particolarmente qualificati.

Ed è proprio la previsione dell’esiguo numero di professionisti che potrebbero ragionevolmente dedicarsi a una consulenza davvero indipendente a costituire l’ostacolo principale alla nascita della nuova professione.

La legge, infatti, àncora l’esercizio della professione alla creazione di un ennesimo Organismo, che ne regoli l’accesso e ne gestisca l’albo, l’Organismo per l’albo dei consulenti finanziari (Acf). Siffatto Organismo dovrebbe essere, come nelle altre analoghe esperienze, interamente autofinanziato dai professionisti iscritti. E se questi sono troppo pochi, l’Organismo ovviamente non può reggersi.

Tralasciando discorsi troppo tecnici (per cui rinvio al mio La disciplina degli organismi per la tenuta degli albi dei professionisti operanti nel settore bancario, finanziario e assicurativo:un’ipotesi di riorganizzazione normativa, in Banca, borsa, 2014, n. 1), va detto che appare davvero assai improbabile che si possa far nascere l’ennesima micro-Authority, sperando che il mercato se la paghi, al tempo stesso senza ridurre la necessaria contribuzione alla Consob o ad altre vere e proprie (non micro) Autorità di vigilanza, oggi doverosamente in larga parte sostenute dagli stessi soggetti vigilati.

Sia chiaro: l’esperienza di questi ultimi anni ha mostrato come la delega di funzioni da parte di Autorità di vigilanza a Organismi minori che gestiscono esami di abilitazione e albi professionali sia cosa buona.

L’attribuzione all’Organismo promotori (Apf) di competenze già della Consob ha evidentemente consentito risparmi di spesa e maggiore efficienza.

Che però possa riempirsi il mercato di una moltitudine di Organismi (poi, alcuni con natura pubblicistica, altri no; alcuni con poteri di vigilanza, altri no; secondo la consueta schizofrenia del nostro legislatore) è impensabile. Accanto all’Apf, che funziona da anni (e bene), è da qualche tempo nato l’Oam (per gli agenti creditizi), che ancora ha qualche difficoltà, e dovrebbe a breve nascere l’Organismo per gli agenti assicurativi.

In più dovrebbero esserci un Organismo per i Confidi, uno per i soggetti operanti nel settore del microcredito (fortunatamente, già di fatto soppresso) e, appunto, l’Acf. Troppi e, complessivamente intesi, troppo (inutilmente) costosi.

Se dunque la delega della micro-vigilanza sui professionisti a questi Organismi è opportuna, se l’autofinanziamento è doveroso e se i consulenti finanziari non possono, allo stato, sostenerne uno ad hoc, è chiaro che il nascituro Acf dovrà essere accorpato ad altro già esistente (e funzionante).

Dopo (troppi) anni di meditazioni, questo ragionamento sembra oggi  largamente  condiviso. L’Acf è però, in qualche modo, conteso: c’è chi propone di accorparlo all’Oam, e dunque indirettamente farlo rientrare nell’ambito della vigilanza “primaria” della Banca d’Italia, e chi propone di accorparlo all’Apf, dunque nell’ambito della vigilanza “primaria” Consob. Non mancano per vero altre, più fantasiose, proposte.

E’ però fuor di dubbio l’affinità fra la professione di promotore e quella di consulente finanziario. Non vedo, francamente, affinità fra consulenti finanziari e mediatori creditizi, che fanno tutt’altro.

Invero, sempre più al promotore finanziario è richiesto di svolgere attività di consulenza, necessariamente prodromica alle valutazioni di adeguatezza e di appropriatezza degli investimenti proposti al cliente.

La differenza reale fra promotore e consulente sta in ciò, che mentre il secondo è per sua natura indipendente, il primo è limitato dal noto vincolo del mono-mandato, che gli impone di offrire al cliente esclusivamente i prodotti o servizi di cui sia collocatrice l’impresa per cui lavora. Detto questo, però, le due attività sono evidentemente affini: il consulente indipendente consiglia, ma non offre; il promotore (non indipendente) parimenti consiglia, ma poi offre. Il primo guadagna dal consiglio indipendente; il secondo dalla vendita, di cui il consiglio è premessa.

Dal punto di vista logico è, conseguentemente, del tutto naturale che Apf e Acf siano accorpati: due albi con un solo Organismo di gestione o anche, forse meglio, un solo albo con due sezioni, una dedicata ai consulenti “tied” (gli attuali promotori), l’altra dedicata ai consulenti indipendenti.

E non ci sarebbe nulla di strano se, nel tempo, dei professionisti passassero da un albo (o sezione) all’altro, modificando le modalità di esercizio della loro professione.

Anzi, secondo me sarebbe un esito auspicabile, trasparente e positivo per il mercato.

Sarebbe, invece, triste che la professione di consulente indipendente dovesse restare al palo, in un’area grigia e non regolata (si consideri che sul mercato sono già presenti consulenti e analisti di vario genere, che si autoqualificano indipendenti, ma la cui indipendenza e preparazione professionale appaiono prive di riscontri obiettivi, nonché vere e proprie associazioni di categoria), perché le autorità di settore non trovano un accordo su dove collocare l’Organismo per la tenuta dell’albo.

E una volta adeguatamente “collocato” l’Organismo, è logico che a esso sia attribuita anche la (micro) vigilanza sugli iscritti all’albo – come espressamente previsto per l’ultimo nato di questi Organismi, l’Oam – per un’evidente ragione di economicità e di snellimento dell’attività amministrativa centrale.