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Art funds: pronti, partenza, via

A seguito del completo recepimento della Direttiva AIFMD, c.d. Direttiva alternative, il quadro normativo sugli "art funds" appare oggi finalmente maturo anche nel nostro ordinamento. A ben vedere dunque, la legislazione che disciplina i fondi d'arte si muove su una duplice direzione che accoglie, da un lato, la "detipizzazione" del sistema, in cui si è andato delineando una sorta di "archetipo" del fondo alternativo, dall’altro un modello di mercato di tipo privatistico anche se sottoposto alla vigilanza dell’autorità pubblica.

Silvia Segnalini
Segnalini

Si è già visto come la storia degli art funds, anche se poco frequentati dagli investitori – oltre che dalla dottrina giuridica – , sia tutt’altro che breve (sul punto si rinvia al precedente intervento su FCHub: “Anche per soldi non solo per passione”).

Quello che preme a questo punto far emergere è come anche il quadro normativo –  all’indomani del recente, completo, recepimento della Direttiva AIFMD, c.d. Direttiva alternative (Direttiva 2011/61/UE del Parlamento europeo e del Consiglio dell’8 giugno 2011) anche nel nostro ordinamento – sia sostanzialmente maturo.

Il percorso compiuto della legislazione sui fondi è infatti oramai chiaro e al suo interno si  possono delineare due direzioni: la prima, già tracciata col T.U.F., ed ancora più marcatamente segnata dalla Direttiva AIFMD-alternative che dà ampio spazio ai fondi atipici, è quello della “detipizzazione” della materia (là dove nel sistema precedente al T.U.F., era necessario un nuovo intervento legislativo per l’introduzione di ogni tipo di fondo comune di investimento, e addirittura per ogni modifica delle sue caratteristiche); la seconda direzione è quella definitivamente presa già col Decreto Eurosim del 1996, attraverso cui si è fatta la scelta di un modello di mercato di tipo privatistico, pur se sottoposto alla vigilanza dell’autorità pubblica, il che se è possibile si è andato ora ancor più consolidando, soprattutto se guardiamo nell’ambito dei fondi alternativi, dove è indubbio che l’autonomia privata gioca un ruolo essenziale, mentre il ruolo del controllo dell’autorità pubblica si affievolisce.

In questo processo che abbiamo chiamato di “detipizzazione” del sistema, si è andato però  delineando una sorta di “archetipo” del fondo alternativo, che, come per l’impianto regolamentare, pur non essendo stato pensato appositamente per i fondi di arte – e del resto ci saremmo stupiti del contrario, considerando la prima delle direzioni poc’anzi evidenziate – , proprio a tali fondi può essere agevolmente sovrapposto.

L’archetipo è quello del FIA italiano di tipo “chiuso” – in quanto facilmente si supera la soglia  del 20% di investimenti in beni o attività con un minor grado di liquidità, come specificato nell’art. 4 del recente Decreto ministeriale 5 marzo 2015 n. 30, attuativo dell’art. 39 del novellato T.U.F. – , meglio ancora se riservato, in quanto in questo caso è possibile la costituzione anche mediante apporto (di opere, nel nostro caso); non è necessaria l’autorizzazione della Banca d’Italia; si può costruire in maniera mirata il Regolamento del  fondo (rispettandone un contenuto minimo stabilito dalla normativa): fondo che può avere una durata massima di 50 anni, decisamente molto funzionale ad investimenti a lungo termine, come quelli di arte, soprattutto quando la scelta sia quella di compierli attraverso un fondo di investimento.

Il che non esclude ovviamente la possibilità di configurare un FIA italiano chiuso di tipo non  riservato.

Oramai poi con la Direttiva AIFMD, è previsto come la SGR che gestisce un fondo alternativo  si debba dotare di un documento di policy con una mappatura dei conflitti di interesse (con un  meccanismo che è quindi simil-UCITS, pur trattandosi di fondi non armonizzati); mentre anche  se la medesima Direttiva prevede la presenza solo facoltativa dei c.d. esperti indipendenti (là  dove la normativa italiana li aveva già previsti come obbligatori perlomeno nei fondi  immobiliari, con i quali i fondi di arte hanno indubbie analogie), è indubbio come la presenza di  tali esperti sia fisiologica in un fondo di arte.

Non a caso poi il già citato Decreto ministeriale 5 marzo 2015, n. 30, entrato in vigore il 3  aprile 2015, che sostituisce il precedente Decreto ministeriale 24 maggio 1999, n. 228, –  completando così l’iter di recepimento della Direttiva Alternative, avviato con le modifiche al  T.U.F. apportate dal Decreto legislativo 4 marzo 2014, n. 44 e proseguite col Provvedimento  19 gennaio 2015 della Banca d’Italia (contenente il nuovo Regolamento sulla gestione  collettiva del risparmio) e col Provvedimento congiunto Banca d’Italia-Consob 19 gennaio  2015 (che modifica il Regolamento congiunto in materia di organizzazione e procedure degli  intermediari del 19 ottobre 2007) – , rafforza i presidi e le cautele per i conflitti di interesse (di  cui invece non si faceva menzione nel Decreto ministeriale del 1999).

Il che è totalmente in linea col modello organizzativo della SGR promosso e suggerito, anche  attraverso protocolli di autonomia, ad esempio da Assogestioni: in cui si immagina un comitato  investimenti, degli esperti indipendenti e un Cda con amministratori indipendenti.

Si ritiene infatti come la compresenza di soggetti diversi, tutti con ruoli indipendenti, e  soprattutto di momenti diversi di confronto tra i medesimi, possa ben neutralizzare i conflitti di  interessi.

Un problema quest’ultimo che non è nuovo – come non è nuova la questione degli  amministratori indipendenti (che si era posta anche al momento della loro introduzione nelle  Spa) – , e che soprattutto non comporta che l’operazione non si faccia, ma semplicemente  che venga gestito, attraverso i molteplici strumenti ora a disposizione: basti ricordare, oltre a  quanto già sottolineato, anche l’art. 21 del T.U.F. e quanto previsto in materia anche dalla  Direttiva 2004/39/CE, la c.d. MiFID.

A questo punto, quindi, sommessamente si ritiene come il passo successivo da compiere per  una maggiore diffusione degli art funds, sia quello di studiare un modello di business  sostenibile, in cui l’arte entri nel portafoglio come asset class alternativo.

La domanda di fondi di arte, infatti, esiste già, soprattutto presso la clientela più abbiente; e gli  indici di settore ci dicono come il rendimento dell’arte sia paragonabile a quello dell’equity:  anzi, che sia meno volatile di quest’ultimo.

Occorre a questo punto trovare un punto di equilibrio e di efficienza tra rendimento, rischio e  orizzonte temporale, che si attagli a questo particolare asset, tenendo in considerazione i costi  di intermediazione (che sono più alti della media) e la necessità di figure altamente  specializzate (oltre che indipendenti).

Un orizzonte che – secondo alcuni esperti – si può muovere in direzioni diverse: quella della  collezione molto diversificata, del venture capital dell’arte, del private equity dell’arte per la  gestione di scuderie di artisti o per la valorizzazione di patrimoni culturali/assets abbandonati,  superando così la logica dell’arte come manufatto, e analizzando meglio in che modo la  medesima può produrre rendimento. E applicando dove servono anche i modelli già noti del  real estate, soprattutto quando occorre ragionare in termini di location, qualità del bene,  promozione dell’asset.

Insomma, non vi sono più alibi: gli art funds sembrano davvero ai nastri di partenza. Chi vivrà,  vedrà.